Benvenute e benvenuti a un nuovo numero di Capibara, una newsletter umanista che fa ridere ma anche pensare. Gli iscritti più anziani ricorderanno il primo numero di questa newsletter. Eccone un estratto:
Uscendo ogni quindici giorni, e visto il susseguirsi incredibile di notizie che inondano social, TG e bar di paese, non sarà facile stare al passo coi meme, ma ci proviamo. Anno dopo anno, il mondo sembra scivolare verso una spirale di instabilità e irrazionalità. Quello che un tempo era il ciclo di notizie si è trasformato in una centrifuga che mette in difficoltà anche i più esperti. Non facciamo in tempo a storicizzare un evento epocale, che un altro evento epocale è già accaduto. Abbiamo il fiato corto: è tutto troppo. E quindi si mema.
Ci son stati alcuni cambiamenti da quel 25 marzo 2023, ma l’obiettivo di fondo è rimasto sempre lo stesso: tentare di raccontare questo presente che tanto ci fa divertire.
Salvo indagini svolte dai carabinieri del caso Garlasco, viviamo in un mondo in cui possiamo vedere e sapere tutto ciò che accade. A volte perfino ciò che non accade, grazie a robe tipo l’AI o Le Iene. Con un po’ di impegno, possiamo farlo andando oltre l’algoritmo. Vedere e sapere tutto travolge le nostre attenzioni e le nostre emozioni e, nella perenne e solitaria connessione di una stanza pagata uno sproposito, abbiamo sempre più bisogno di farlo insieme. O di fingere di farlo.
Diamo un po’ i numeri: il Surgeon General americano ha definito la solitudine cronica un'epidemia che colpisce il 30% della popolazione, etichettandola come "crisi di salute pubblica". L'Organizzazione Mondiale della Sanità conferma: 1 adulto su 4 sperimenta isolamento sociale e tra il 5 e il 15% degli adolescenti vive episodi di solitudine. E qui viene il bello: più tempo passiamo sui social media, più ci sentiamo soli.
Insomma, siamo tutti connessi, ma nessuno è davvero collegato. È come essere a una festa dove tutti stanno al telefono. Non è una metafora Giacomo, è la vita. È come se avessimo sostituito la profondità con l'ampiezza, la qualità con la quantità, l'intimità con l'esibizione.
Un tempo ci si radunava nel salotto, con la TV accesa e i piatti nel lavello, o attorno alla radio, tutti zitti per sentire il giornale radio delle 20. Era un momento rituale, ma anche necessario: c'era una sola televisione, pochi canali, e quindi bella lì.
Émile Durkheim, il sociologo che per primo ha teorizzato i "fatti sociali totali", aveva capito tutto un secolo fa: i rituali collettivi sono il collante della società. Creano quello che lui chiamava "solidarietà meccanica" - una forma di coesione sociale basata sulla somiglianza e sulla condivisione di esperienze comuni.
Oggi ognuno ha il suo schermo, le sue cuffie, la sua bolla. Eppure cerchiamo comunque momenti di visione collettiva. Commentando. Memando. Scrivendo tweet sarcastici in tempo reale come se fossimo tutti nella stessa stanza, anche se siamo sotto una coperta con la luce del frigo come compagnia.
E qui succede qualcosa di strano che gli psicologi hanno chiamato "relazioni parasociali": legami emotivi unidirezionali che gli individui formano con personaggi famosi, facilitati dall'ascesa dei media digitali. In pratica, sviluppiamo affetto per persone che non sanno nemmeno che esistiamo.
Pensiamo alla separazione di Totti e Ilary, alla separazione dell’atomo, alla separazione di Fedez e Chiara Ferragni. Per giorni i social sono esplosi con commenti, meme, analisi degne di un convegno di sociologia familiare. Gente che non ha mai parlato con nessuno dei due si sentiva tradita, delusa, come se fosse finito il matrimonio del fratello. Anche chi non si è mai interessato a questo tipo di vicenda, tende a commentarla per evitare l’invisibilità, per sentirsi partecipe di una vita collettiva che non è per nulla collettiva, e a malapena è vita. Tende a volerci (doverci?) memare sopra, come Ulisse in balìa del canto delle sirene.
Prendiamo il ritorno in auge di Sanremo. Come detto nell’episodio del podcast sul mercato musicale, c’è un elemento che riguarda l’approccio ai prodotti culturali e mediali. Ho il sospetto che Sanremo stia andando così bene negli ultimi anni perché è una specie di antidoto alla frammentazione. Più siamo abituati e consapevoli della frammentazione delle nostre vite, più abbiamo bisogno di raccoglierci, almeno qualche volta all’anno, attorno a eventi collettivi e condivisi, di sincronizzare visioni e discorsi a una temporalità generalista.
Gli eventi pubblici diventano pretesti per una socialità di superficie, ma non per questo meno potente. Non guardiamo solo l'Eurovision, le Olimpiadi, le elezioni o la nuova puntata di MasterChef. Li partecipiamo. Anzi, li copartecipiamo, condividendo ogni frame, ogni battuta, ogni colpo di scena. La vita in diretta. Un Paese di memetti mentre fuori c’è la morte.
Il caso Garlasco, la guerra in Ucraina, la morte di Berlusconi, le braccia di Pedro Pascal, il Conclave, Montoya por favor, l'arresto di Matteo Messina Denaro: tutto diventa spettacolo da osservare e commentare. Una sorta di Super Bowl permanente, senza touchdown ma con i meme. Milioni di persone davanti all'incoronazione di Re Carlo III come fosse una serie TV, o sotto la notizia della scelta dei protagonisti della nuova serie su Harry Potter, come fosse la loro vita.
Gossip e cronaca nera hanno sempre attirato grandi discorsi, ma col crescere di social e frammentazione, il fenomeno si è allargato a ogni possibile evento. Probabilmente fu Lost il primo fenomeno mainstream. Debutta il 22 settembre 2004 negli Stati Uniti, e tutto ciò che oggi diamo per scontato ebbe inizio quel giorno. Prima del 2004 la tv aveva deciso di puntare sui reality, tipo il Grande Fratello: costavano poco e avevano tanto pubblico. Lost ha cambiato schema: intanto, costava tantissimo. Era una superproduzione in cerca di un pubblico e lo ha trovato. Fino al 2010, quando andò in onda l’ultima puntata dell’ultima stagione, è stato un fenomeno popolare. Le date sono importanti: quando Lost debutta, Facebook era nato da qualche mese ed era ancora un progetto universitario. Man mano che le avventure dei sopravvissuti andavano avanti, anche i social iniziarono a diventare parte della vita di alcuni di noi. E tutto quello che succedeva su Lost, diventava argomento dei social. Trending topic.
Pochi anni prima ci fu forse l’ultimo evento storico prima dell’avvento massiccio dei social, l’ultimo evento entrato nella memoria collettiva senza avere la possibilità di commentarlo real time. Cosa che comunque facciamo ora, con meme e canzoni, a distanza di più di vent’anni, forse tristi per una grande occasione di personal branding mancata. Parlo dell’11 settembre, del momento in cui Bush viene a sapere del secondo aereo, dell’interruzione della Melevisione. Ho chiesto a ChatGPT cosa sarebbe potuto succedere se avessimo avuto a disposizione gli strumenti digitali che abbiamo oggi:
La moltiplicazione immediata delle immagini e dei testimoni
Ci sarebbero stati milioni di video e foto in tempo reale da ogni angolazione. Non solo quelle iconiche trasmesse in diretta TV, ma anche video amatoriali in verticale, streaming TikTok dal centro di Manhattan, selfie sotto le Twin Towers, audio su WhatsApp. Questo avrebbe reso l’evento ancora più viscerale e diffuso, ma anche più difficile da gestire in termini emotivi, psicologici e informativi. Avremmo avuto un overload sensoriale prima ancora che uno cognitivo.
La nascita immediata delle teorie del complotto
Le teorie cospirazioniste emersero già nei mesi successivi, ma con i social attuali sarebbero esplose in tempo reale. Video rallentati, frame analizzati su Reddit o X, “esperti” improvvisati a spiegare che il crollo era una demolizione controllata. La frattura epistemica che oggi viviamo – quella tra verità ufficiale, verità alternativa e verità memetica – si sarebbe aperta subito. QAnon probabilmente sarebbe nato nel 2001.
Il meme come forma di elaborazione e difesa
Come per la pandemia, per la guerra in Ucraina o la morte di personaggi famosi, ci sarebbero stati meme su tutto: la paura, l’eroismo, il panico, Bush, Bin Laden, i pompieri, l’America. Il meme avrebbe agito da trauma diffuser, uno strumento collettivo di rielaborazione simbolica, spesso dissacrante. Questo non significa superficialità: l’umorismo nero è anche uno scudo contro l’angoscia.
L’illusione della partecipazione
La possibilità di commentare l’evento in tempo reale avrebbe dato l’impressione di partecipare a un momento storico globale. “Sto piangendo”, “Non ci credo”, “Chi sono stati?”, “Bombardateli tutti”. Ma come dici giustamente tu, non sarebbe stato vero dibattito pubblico. Solo un’eco sconnessa, dove la visibilità e la performance contano più del confronto.
Una radicalizzazione più rapida
L’impatto del trauma collettivo, combinato con la velocità e l’algoritmicità dei social, avrebbe potuto accelerare la polarizzazione. Rabbia, paura, razzismo, patriottismo tossico: il tutto amplificato da bolle e camere dell’eco. Il Patriot Act e le guerre in Iraq e Afghanistan avrebbero forse avuto ancora più sostegno popolare nei primi mesi – e anche più dissenso visibile, anche se probabilmente più represso dagli algoritmi.
Il lutto spettacolarizzato
Avremmo assistito a un lutto collettivo in forma di stories, post commemorativi, filtri "We Remember", performance pubbliche del dolore. Un mix di sincerità e narcisismo. Un cordoglio social che, come sempre, avrebbe oscillato tra il bisogno umano di unirsi e l’esibizione individuale della sensibilità.
Insomma: molto probabilmente l’11 settembre sarebbe stato un evento ancora più vissuto, ma anche più frammentato, strumentalizzato e alienante. Forse meno capace di produrre un senso di realtà condivisa. Forse più vicino a ciò che oggi chiamiamo “infocalisse”: un crollo non solo delle torri, ma anche del senso.
Come disse non ricordo chi, forse Jim Morrison, in Italia ci sono 60 milioni di allenatori. Il senso di appartenenza è stato per anni elemento distintivo del giuoco del calcio, e viceversa. Anche se di ciò che fanno 11 sconosciuti a noi concretamente dovrebbe fregar poco, non è così: si tifa insieme per qualcosa, si litiga, ci si incazza, si festeggia. Nel 1990 nasce il Fantacalcio, da un'idea del giornalista Riccardo Albini, ispirato da giochi simili che circolavano già negli Stati Uniti come il Fantasy Baseball. L’idea era trasformare il calcio da spettatori in un’esperienza interattiva. Oggi abbiamo il FantaSaremo, il Fantamorto, il FantaOscar, il Fantagoverno, il FantaNobel, il Fantaconclave… Ogni evento in cui vi è della competizione lo diviene anche per noi, sotto forma di gamification. Piccoli rituali che stimolano la socialità, ma che non sempre è quella che ci immaginiamo. Funzionano piuttosto come una specie di collante leggero, che mette insieme le persone in modo semplice, a volte sano, a volte tossico.
Uno dei rischi è quello di appiattire l’evento su un piano ironico, perdendo il valore emotivo o artistico di ciò che accade.
Ed è qui che il meme entra in scena. Il meme è l'unità base della nostra collettività digitale. È il linguaggio con cui esprimiamo appartenenza senza impegno, ironia senza dolore, partecipazione senza rischio. E soprattutto, è veloce. In un mondo dove gli eventi si susseguono a ritmi impossibili, il meme è l'unico modo per starci dietro senza perdere la testa.
Henry Jenkins, con la sua teoria della cultura partecipativa, ci dice che non siamo più spettatori passivi. Remixiamo, commentiamo, ricontestualizziamo. Ma non lo facciamo per puro spirito creativo. Lo facciamo perché è il nostro modo di non sentirci alieni davanti alla valanga di stimoli quotidiani. È il nostro modo di non scomparire.
Come una stretta di mano tra sconosciuti che si dicono: "eh, lo so, anche io ho visto quella cosa. Anche io ci sono dentro."
Pensate al meme di Bernie Sanders seduto con i guantoni alla cerimonia di insediamento di Biden. In poche ore è diventato il simbolo di una generazione che si riconosceva in quel vecchio signore annoiato e infreddolito. Non era solo una foto divertente: era un momento di identità collettiva istantanea.
I luoghi dell'incontro sono cambiati. E con loro, la natura stessa dell'incontro. Una volta c'erano le manifestazioni in piazza - oggi c'è la storia su Instagram con All Eyes on Rafah. Una volta si scriveva una lettera al giornale - oggi si fa un duetto su TikTok. Se poi provi a fare il nostalgico scendendo in piazza vieni manganellato; se provi a fare il nostalgico in un altro senso “che belli i miei ragazzi”.
Ma attenzione: questa non è solo ironia. È fame di senso. Di presenza. Di contatto. Durante il lockdown, Netflix Party (ora Teleparty) ha registrato un aumento del 1000% degli utenti. La gente aveva così tanto bisogno di "stare insieme" che ha reinventato la visione collettiva attraverso una chat laterale. Guardavamo Tiger King da soli, ma commentavamo insieme.
Forse stiamo solo cercando di condividere la nostra solitudine. Di non sentire troppo il peso di una società che ci vuole sempre connessi, ma mai insieme. Che ci dice di partecipare, ma solo se restiamo ciascuno nel proprio riquadro.
E allora proviamo a unirci restando soli. Il meme diventa un abbraccio sintetico. Il commento live un brindisi simbolico. Il post indignato una preghiera collettiva. Ridiamo, ci arrabbiamo. E poi chiudiamo l'app e aspettiamo il prossimo evento globale da metabolizzare insieme. Ognuno sotto le proprie coperte.
Gli algoritmi ci danno l'illusione della condivisione mostrandoci sempre le stesse reazioni, le stesse opinioni. Crediamo di far parte di una comunità, ma in realtà siamo dentro una bolla che riflette solo noi stessi moltiplicati per milioni. È come guardare in una sala degli specchi e pensare di essere a un rave.
È un circolo che si autoalimenta, dove la nostra fame di connessione autentica viene temporaneamente placata da surrogati digitali sempre più sofisticati.
Forse stiamo inventando nuove forme di socialità, adatte ai tempi che viviamo. Il problema sorge quando questi surrogati diventano sostituti permanenti del contatto umano reale, quando il meme diventa più importante del momento che rappresenta, quando la reaction vale più dell'azione.
Quando il personal branding vale più delle persone e la performance digitale ci fa dimenticare che esistiamo.
E allora, se tutto ci spinge a urlare “ce la faremo” restando sul nostro balcone, forse è il momento di uscire. Di partecipare quando e finché ci viene concesso. Perché la cittadinanza non è solo un documento. È sentirsi parte. È esserci. È poter dire la propria. E il lavoro non è solo una fatica, ma un diritto. Da proteggere, da ridiscutere, da cambiare insieme.
L’8 e il 9 giugno si vota. Non è una notizia che troverete ovunque, perché qualcuno spera che non se ne parli troppo. Ma si vota su cose serie: sul diritto alla cittadinanza per chi vive qui da anni, studia, lavora. E si vota su diritti del lavoro che ci riguardano tutti: precariato, licenziamenti, sicurezza, dignità.
Secondo Demopolis, solo il 46% degli italiani sa che ci sarà questo referendum.
Ma se restiamo nell’indifferenza, non possiamo lamentarci del risultato.
L’astensione non è neutralità: è lasciare ad altri la voce che potremmo avere.
Ed è proprio in tempi come questi, dove sembra contare solo chi urla più forte, che il silenzio diventa complicità.
Quindi sì, condividiamo meme e riflessioni. Ma la partecipazione vera è ancora un gesto potente. L'8 e il 9 giugno usciamo e andiamo a votare.
Per questo quarantaseiesimo numero di Capibara è tutto. Il prossimo numero credo sarà l’ultimo di questa stagione, poi Capibara va in letargo nel tentativo di affrontare un'altra estate senza sbarellare. A presto!
Jim Morrison mi ha steso 😂