Benvenute e benvenuti a un nuovo numero di Capibara, una newsletter che fa ridere ma anche pensare. Gli ultimi due numeri sono stati un po’ tosti, lo ammetto, d’altronde il periodo post Sanremo fa compiere follie. Mi sono e ci siamo espostə non poco, ma in quanto pseudo-scrittore ho imparato a non aver paura nel farlo.
Oggi vorrei tornare a scrivere di qualcosa di più leggero, a respirare quell’aria primaverile che ormai sembra aver oltrepassato la collina, polveri sottili permettendo. Non ce la meritiamo tuttə una primavera ogni tanto? Direi di sì. Non ce lo meritiamo tuttə un oscar per il miglior film? Ok sto esagerando, al massimo quello per la miglior sceneggiatura non originale.
Pochi giorni fa si son tenuti gli Oscar 2024 e non ci son state grandi sorprese. Il punto più alto è stato il Border Collie di Anatomia di una caduta che fa finta di applaudire, ma anche il nostro mitico Televideo si è fatto valere.
A parte Televideo, che ringrazio per il meme e dimostra di essere ancora usato da qualcun sotto i 99 anni, il film di Garrone ha davvero non vinto. L’Italia rimane comunque il paese che ha vinto più Oscar per il Miglior film straniero grazie ai film di Federico Fellini, Vittorio De Sica, Paolo Sorrentino, Roberto Benigni, Giuseppe Tornatore, René Clémen, Elio Petri e Gabriele Salvatores, per un totale di 14 statuette.
Vabò, patriottismi a parte, Oppenheimer, ispirato alla vita del fisico Roberto Bolle, ha vinto praticamente tutto. Segue Poor Things, la versione di Barbie per chi ascolta i Mogwai.
Già osannato all’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia e celebrato ai Golden Globes, Poor Things racconta la storia di Bella (Emma Stone), giovane donna montata in laboratorio dallo scienziato Godwin Baxter (Willem Dafoe) a partire dal cadavere di una suicida e dal cervello della bambina che portava in grembo al momento del decesso. Bella vive al riparo dal mondo esterno come un’eccentrica adulta-bambina senza tabù o inibizioni, mentre la dissonanza fra il suo cervello infantile e il corpo adulto e la rapidità del suo apprendimento sono oggetto d’interesse da parte dell’assistente di Baxter, Max McCandless (Ramy Youssef), che di lei s’innamora. Il desiderio della ragazza di fuggire per scoprire il mondo e la sempre più urgente esigenza di fare esperienze sessuali pur nel proibitivo contesto fanta-vittoriano la spingono, invece, ad accettare le lusinghe di Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), che la brama come giocattolo sessuale. Nel tour in cui questi la trascina, Bella, che scopre il mondo senza preconcetti, apprende non solo il piacere ma anche il bene e il male, e si prepara a tornare a casa come persona e non più come oggetto.
Chi pensa che Poor Things sia “solo” un film sulla liberazione del corpo femminile dalla gabbia delle costrizioni sociali, da un'interpretazione corretta ma parziale.
L’emancipazione da povera creatura a essere umano socializzato non passa esclusivamente dal sesso, ma attraverso lo studio e la complicità con altre donne. Ci sono due scene in cui la letteratura si intromette tra Bella e l'oppressione maschile: in crociera, quando una compagna di viaggio le allunga un saggio, con l’implicito impegno di continuare a difendere il suo diritto alla conoscenza. E a Parigi, quando Bella distrugge lo stigma punitivo di Duncan con una citazione marxista.
Bella si percepisce sia come mezzo di produzione che padrona di sé, per estrapolare denaro dal corpo maschile. Ma lo fa per acquisire plusvalore intellettuale, non economico.
Anche il concetto capitalistico di confine - di genere, relazionale e geografico - finisce sotto la lente d’ingrandimento di Lanthimos. Bella brama “un mondo da esplorare e circumnavigare, perché l’obiettivo di ogni individuo deve essere progredire, crescere”. La sua prospettiva dell’attraversamento di culture e saperi si scontra con quella degli uomini vittoriani, che considerano la donna un luogo da conquistare e reprimere.
E se il mondo resiste al nuovo, al diverso, ci proverà Bella a cambiarlo, non più attraverso schemi sociali binari e asimmetrici, ma con la creazione di nuclei comunitari fondati sulla cura, fluidi e aperti.
Il brindisi di Bella con i suoi pari urla “make kin not babies” (create relazioni, non figli), come postulato dalla filosofa Donna Haraway.
Bella Baxter è tutto e ognunə di noi ne contiene almeno un frammento: donna, moglie, madre, cadavere elettrificato, mostro, bambina, adolescente, di nuovo donna, promessa sposa, eterosessuale, lesbica, vorace, ubriaca, idealista, prostituta, studentessa, lavoratrice, socialista, assassina, chirurga, leader di un’utopia sociale. Ma Bella Baxter è e resterà sempre Emma Stone e seguire il suo esempio può essere un buon punto di partenza: fare meno capricci, aprire più libri.
Un po’ Frankenstein, un po’ Casa di bambola, un po’ Lolita, con qualcosa dell’immaginario di Tim Burton e un lieto fine che ha più a che fare con le morali disneyane che con l’universo ambiguo per cui Lanthimos è noto. Tutto ciò fa di Poor Things il suo lavoro più pop, ma non è per forza una cosa negativa.
È stato nominato, everybody stay calm! Tim Burton è tra i pochi ad aver raccontato così bene il confine tra onirico e verità, tra grottesco e comico. Ho avuto modo di visitare The World of Tim Burton, la mostra-evento in scena al Museo Nazionale del Cinema di Torino, e di leggere il numero di Linus a lui dedicato, e di scoprire meglio il suo percorso fatto di idee, contaminazioni, passioni, oggetti, incubi, dal periodo in cui da ragazzo e universitario si nutriva di horror e film di fantascienza, a quello che poi lo ha portato ai suoi film più celebri.
“La fantasia mi è stata più vicina della realtà”. Timothy Walter Burton nasce e cresce a Burbank, a cavallo tra gli anni ’50 e i ’60. E quella periferia losangelina così borghese diventa presto una prigione per lui, che già da giovane matura la convinzione di essere un reietto, un emarginato della società. Tutte quelle villette a schiera, quei giardini ordinati, quei volti sorridenti di chi esce la mattina per andare al lavoro e torna la sera sono insostenibili per lui, che cerca rifugio nell’unica cosa che glielo dà: il cinema.
Per un bambino che scambia gli incubi coi sogni, non c’è niente di peggio che iniziare a lavorare come disegnatore alla Disney. La carriera di Burton inizia così, disegnando dolci volpi per Red e Toby: “lavoravo con un grande animatore, Glenn Kean. Era simpatico e buono con me, è un bravissimo animatore e mi ha aiutato. Ma in un certo senso mi ha anche torturato perché ero costretto a disegnare tutte quelle scene di volpi carine e non ci riuscivo, non riuscivo nemmeno a imitare lo stile Disney. È stata come la tortura della goccia cinese”. Burton ha sempre conservato un rapporto conflittuale con la Disney, pur tornando a lavorarci, “vogliono che tu sia un artista ma allo stesso tempo che sia un operaio di fabbrica zombi senza alcuna personalità”.
Se c’è un film, uno solo, che dovessimo prendere per rappresentare l’universo cinematografico burtoniano, sarebbe l’unico che non è stato diretto da lui. Nightmare Before Christmas è un progetto a cui ha cominciato a lavorare durante la sua epoca Disney e che proprio per questo ha fatto fatica a emergere. “Cercavo di capire se fosse loro, e infatti era loro, come qualsiasi cosa. C’è questa cosa che firmi quando lavori lì che afferma che ogni cosa che pensi mentre sei loro dipendente è proprietà della polizia del pensiero”. L’intesa per la produzione del film arriva comunque dopo i successi commerciali di Beetlejuice e Batman. Burton torna a lavorare sul progetto, ma deve cedere la regia perché è impegnato con Batman - Il Ritorno. Il film viene dunque diretto da Henry Selick, maestro della stop-motion e collega di Burton in Disney.
In tutti i film più ispirati e meglio riusciti di Tim Burton è possibile riconoscere qualcosa della sua vita e del suo modo di pensare. Nel raccontare la genesi di Vincent, il corto che parla di un bambino emarginato e della sua fascinazione per Vincent Price, dice: “non è che mi sono messo a pensare ‘adesso disegno uno che mi somiglia’, però i sentimenti su cui è basato sono gli stessi che avevo io”. E il discorso vale un po’ per tutti i suoi film e i suoi eroi così anticonvenzionali, dove è evidente come Burton decida di schierarsi dalla parte dei freak, dei non vivi, dei mostri e dei fantasmi, mentre i vivi sono ritratti come personaggi meschini e aridi.
In realtà ci sono altri legami molto più sensati: anche Hayao Miyazaki e il suo Studio Ghibli hanno inventato un universo fatto di personaggi, stili e temi unici e complessi. Inoltre, il suo Il ragazzo e l’airone è fresco vincitore dell’Oscar come Miglior film d’animazione. Tra l’altro ho appena scoperto che non si è presentato a ritirare l’Oscar e, forse, non apparirà più al mondo per “imbarazzo e vergogna”. Si sente in colpa per essersi ricreduto dopo aver dichiarato che sarebbe andato in pensione. Il regista aveva infatti dichiarato, undici anni fa, che dopo Si alza il vento non avrebbe girato più film.
Che dire? Miyazaki uno di noi.
Tornando seri, in più di quarant’anni di carriera Miyazaki ha creato un universo narrativo molto riconoscibile, nonostante la concorrenza è largamente l’animatore giapponese più conosciuto all’estero e viene spesso citato, insieme a Walt Disney, come una delle persone più influenti nella storia dell’animazione.
Nel tempo i suoi personaggi sono entrati nell’immaginario collettivo, come il custode della foresta Totoro, lo spirito senza volto Kaonashi e Marco Pagot, il maiale antropomorfo protagonista di Porco Rosso che pronuncia una delle frasi più celebri della sua filmografia e, in generale, dell’animazione giapponese: “piuttosto che diventare un fascista, meglio essere un maiale”.
Il ragazzo e l’airone è ambientato in Giappone durante la Seconda guerra mondiale, e per alcuni aspetti è un’opera autobiografica. È un film piuttosto diverso dai precedenti di Miyazaki, più cupo e allegorico, quasi psichedelico, e che richiede un certo sforzo di interpretazione.
Può essere considerato come il testamento artistico di Miyazaki, dal momento che il film affronta un tema spinoso come quello dell'eredità, intrecciandolo con una riflessione non banale e un filo pessimista sull'avvenire dello Studio Ghibli.
Il ragazzo e l'airone è, a un primo livello, un racconto sull'elaborazione del lutto, quello del giovane Mahito, orfano di madre. Mahito prova un grande dolore, un dolore che lo ha fatto crescere in fretta. Eppure ha ancora molto da imparare.
La scomparsa di Natsuko, sorella di lei e nuova moglie del padre, spinge Mahito, per salvarla, a compiere un viaggio in un altro mondo, accompagnato da un airone cenerino.
Spesso la critica rimane spiazzata dal successo che ha raggiunto in tutto il mondo, e lui stesso ha spesso affermato di essere sconcertato dalla popolarità che il suo lavoro ha riscosso all’estero. Il suo è un cinema personale, ricco di elementi autobiografici, metafore, simbolismi e onirismo, che risente dell’influenza di alcune passioni molto specifiche come l’ingegneria aeronautica e la storia dell’aviazione. Anche i temi che Miyazaki tratta nei suoi lavori, come l’ecologia, l’antimilitarismo e il rapporto tra storia e memoria, sono molto lontani dalle caratteristiche dei film di intrattenimento per famiglie in cui rientrano spesso quelli d’animazione.
Un altro elemento che distingue i film di Miyazaki è l’assenza della logica che rende facilmente distinguibile il bene e il male, e che rappresenta un elemento distintivo della maggior parte dei lungometraggi animati. In un articolo pubblicato su Doppiozero, Francesco Memo ha scritto che “nelle storie di Miyazaki c’è il male ma mancano i cattivi: personaggi a una dimensione che spiegano con la loro innata natura malvagia la violenza nei confronti dell’uomo e della natura. Abbondano al contrario figure ambigue, cattivi che diventano tali per educazione e addentellati morali, sociali e tecnici”. A questo proposito il giornalista britannico Matt Alt, esperto di cultura pop giapponese, ha scritto che “Miyazaki non ha mai avuto l’intenzione di fare appello al mondo esterno, né tanto meno di cambiarlo”.
Subito dopo la laurea Miyazaki inizia a lavorare per la Toei Animation, la principale azienda dell’industria dell’animazione giapponese. In questo periodo conosce Isao Takahata, un animatore che sarebbe diventato uno dei suoi più stretti collaboratori.
Dopo l’uscita di Nausicaä della Valle del vento Miyazaki e Takahata, stanchi delle rigide regole di stile imposte dalle principali società di animazione giapponesi del tempo, fondano lo Studio Ghibli, uno studio indipendente creato per assicurare maggiore libertà creativa nei disegni, nella scelta dei temi, nei tempi di consegna e nello sviluppo delle storie.
Dalla sua fondazione a oggi, lo Studio Ghibli ha realizzato 23 lungometraggi, dieci dei quali diretti dallo stesso Miyazaki.
Fu in particolare La città incantata a consacrarlo e a renderlo così famoso e apprezzato (vinse l’Oscar come Miglior film di animazione). Per me è il miglior film d’animazione di sempre.
A tal proposito, uno dei quesiti più importanti rimasti senza risposta su La Citta Incantata riguarda l’identità di No-Face, personaggio iconico e misterioso del film. Lo stesso Miyazaki, in una recente intervista, ha finalmente fornito alcuni dettagli: “ci sono molte persone come No-Face tra di noi, è il tipo di persona che vuole aggrapparsi agli altri ma non ha un senso di sé. Sono ovunque”.
Il personaggio, quindi, rappresenta coloro che non hanno il senso di sé e adottano nuove personalità per adattarsi all’ambiente circostante. Questa verità spiega perché No-Face è trasparente e la sua personalità cambia velocemente.
Dopotutto, il film vede inizialmente No-Face regalare oro agli altri nel tentativo di ottenere la loro attenzione. Man mano che No-Face la ottiene, la sua avidità e il suo ego crescono a dismisura. Tutto cambia solo dopo l’incontro con Chihiro. No-Face adotta la personalità di Chihiro trasformandosi in un compagno silenzioso e tranquillo. Solo alla fine cambia ancora, quando sceglie di vivere la propria vita.
Miyazaki è ovviamente popolare anche in Giappone. La parabola della sua produzione negli anni ha cambiato i temi trattati: i quarantenni e cinquantenni ne hanno un’immagine molto politicizzata ed ecologista (dovuta per esempio a Nausicaä della Valle del vento o La Principessa Mononoke), mentre per la generazione dei trentenni i film Ghibli sono storie di formazione che accompagnano i bambini fuori dall’infanzia e verso l’adolescenza (come succede in La città incantata e Ponyo sulla scogliera).
Le tradizioni e la cultura giapponesi sono rappresentate in alcuni dei film di Miyazaki, che hanno contribuito a diffondere nel mondo una conoscenza più approfondita e realistica dello stile di vita del Paese. Altri invece sono ambientati in mondi fantastici che spesso si ispirano all’Europa, come nel caso di Porco Rosso o di Il castello errante di Howl. E a tenere insieme ambientazioni e personaggi fantastici e molto diversi tra loro ci sono elementi personali, legati alla sua storia.
L’attività del padre ha per esempio avuto una profonda influenza sulla sua produzione artistica: tutti i suoi film hanno in qualche modo a che fare con il concetto di volo, e contengono dei riferimenti alla storia dell’aviazione e a famosi modelli di aerei.
L’ossessione per gli aerei ha anche un significato politico: l’azienda che suo padre dirigeva ha contribuito alla costruzione di caccia da guerra che hanno causato la morte di migliaia di persone. Miyazaki non ha mai nascosto di provare senso di colpa per il suo passato familiare: agli inizi degli anni Quaranta, mentre la maggior parte della popolazione giapponese viveva in ristrettezze economiche a causa della guerra, la sua famiglia si arricchì contribuendo allo sviluppo di tecnologie di aviazione militare sempre più sofisticate.
Per questi motivi, le opere di Miyazaki tentano di bilanciare due inclinazioni: quella dell’appassionato di aviazione militare e quella pacifista. Per spiegare questo rapporto antitetico, nel libro I mondi di Miyazaki Alberto Brodesco ha coniato il termine “melanconia dell’ingegnere”, notando come in tutti i suoi film “la scelta si pone tra la possibilità di costruire aerei compromettendosi con la politica, le forze armate e l’industria oppure non costruirne affatto”. Ed ecco che abbiam trovato anche un legame con Oppenheimer. Perfettamente bilanciato come tutto dovrebbe essere.
Ne Il castello errante di Howl, lo stregone si tramuta in una creatura alata al soldo di una guerra che incendia i cieli, ma è un mercenarismo che lo logora nell’animo e da cui vorrebbe scappare. Ogni volta che torna al focolare domestico del suo bizzarro castello, Howl si concede un lungo bagno purificatore per mondarsi dallo sporco della guerra, dal suo odore di sangue e ferro.
Ad accomunare i destini dei personaggi di Miyazaki è forse quell’essere “corpo tra i due mondi” di cui parla Marco Inguscio su Nazione Indiana, quel dover capire quanto sia importante il rapporto dell’umanità con le cose, il rapporto fra le nostre azioni e l’ambiente.
Il corpo tra due mondi è in questo senso conformazione del culturale al naturale, ma senza scadere nel misoneismo e senza nemmeno idealizzare la natura, che nel cinema di Miyazaki non è quasi mai innocente e sentimentalizzata. Dei binarismi, Miyazaki sceglie ogni volta di esplorare lo spazio intermedio, l’intercapedine in cui i anche i codici più antichi possono confondersi.
Quella tra distruzione e ricostruzione è una dualità fondativa per la cultura giapponese, che in Miyazaki va a comporre un immaginario vasto e complesso, permeato da una malinconia sublime e romantica rivolta al passato come al futuro.
La speranza può trionfare sulla distruzione, sembra suggerirci Miyazaki, ma chi sopravvive dovrà capire da sé come andare avanti. Non esistono scorciatoie alla ricerca di un equilibrio tra umani, macchine e natura. E la vita, finché ce n’è una, è come la tremula corda di un arco teso.
Per questo ventitreesimo numero di Capibara è tutto. Le chiome degli alberi stanno iniziando a infoltirsi e quindi vi lascio con un articolo che parla della loro timidezza.