Benvenute e benvenuti a un nuovo numero di Capibara, una newsletter umanista che fa ridere ma anche pensare. Il titolo dice tutto, o quasi. “Fascismo e comunismo non sono la stessa cosa” è una di quelle frasi che dovrebbero essere ovvie, tipo “la terra è rotonda” o “sulla pasta col tonno non ci va il parmigiano”. E invece no. Nei Consigli Comunali, nei talk show e in Parlamento si continua a frullare tutto insieme sotto l’etichetta rassicurante di “estremismi del Novecento”.
Mentre i libri di storia vengono messi in discussione (ma non quelli di Bruno Vespa), fuori dai libri accade qualcosa di più urgente: l’estrema destra detta l’agenda in Europa, si fa strada in mezzo mondo, e anche l’altro mezzo non sta tanto bene. Il nuovo DL Sicurezza sembra scritto col vocabolario del Ventennio. Le manifestazioni vengono represse, la Digos identifica attivisti e antifascisti, le parole diventano sospette e chi le dice ancora di più.
Per questo, in vista del 25 aprile (e anche del pranzo pasquale con i parenti) provo a fare una cosa semplice ma non banale: distinguere. Perché no, fascismo e comunismo non sono la stessa cosa. Né nella teoria, né nella pratica, né nella memoria storica.
È una difesa della complessità. Del contesto. Della verità.
Il fascismo è nato già come regime. Nasce in Italia, nel 1919, da un ex socialista che verrà poi interpretato da Luca Marinelli, una manciata di reduci di guerra e l’idea molto concreta di prendere il potere. In pochi anni ci riescono. Marcia su Roma, governo, leggi liberticide, partito unico. Dal 1922 al 1943 l’Italia è una dittatura. Con tanto di polizia segreta, torture, esilio degli oppositori, omicidi politici (Matteotti), e un’ideologia esplicitamente violenta, razzista, gerarchica.
Il comunismo è nato per abolire lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Nasce molto prima, nel 1848, come pensiero critico sull’ingiustizia sociale. È un’ideologia globale che attraversa il mondo e la storia in mille forme diverse. In certi casi prende il potere e diventa dittatura. In altri casi — come in Italia — resta movimento politico, sindacale, culturale. In molti altri, viene perseguitato, messo al bando, massacrato.
Alessandro Barbero ha riassunto così:
I fascisti sono solo quelli lì. I comunisti sono anche quelli.
Cioè: chi si dice fascista si rifà per forza a Mussolini, al suo regime, alla sua dittatura. Chi si dice comunista può essere stato un contadino russo nel 1917, una sindacalista americana nel 1935, uno studente cileno nel 1972, un operaio italiano nel 1948. L’identità fascista è legata a un regime. Quella comunista a un’idea. E tra idea e dittatura c’è una enorme differenza.
Non c’è dubbio: i regimi comunisti, dove sono andati al potere, hanno spesso fallito. In URSS sotto Stalin ci sono stati gulag, repressioni, omicidi di massa. In Cina sotto Mao, milioni di morti per carestia e persecuzioni. Il comunismo realizzato è stato spesso un disastro.
Ma attenzione: le dittature comuniste hanno fatto il contrario di quello che promettevano. Dicevano uguaglianza, libertà, pace — e hanno creato autoritarismo.
Le dittature fasciste invece — e qui viene il punto chiave — hanno fatto esattamente quello che promettevano:
gerarchia sociale
culto del capo
soppressione delle libertà
violenza come metodo
razzismo biologico
Non hanno tradito i loro ideali. Li hanno portati fino in fondo.
In Italia i comunisti non hanno mai fatto una dittatura. Anzi, hanno fatto la Resistenza. Hanno combattuto — insieme a socialisti, cattolici, liberali — contro il fascismo. Hanno scritto la Costituzione. Hanno partecipato alla vita democratica. Alcuni sono stati sindaci, deputati, presidenti della Camera.
Sono stati criticati, contestati, avversati. Ma dentro un sistema democratico. I fascisti sono saliti al potere eliminando ogni opposizione. Il confronto tra le due esperienze italiane dovrebbe già finire qui.
Sappiamo come funziona. Ogni volta che si critica il fascismo, salta fuori lo zio o il cugino: “Eh però le pensioni! Le bonifiche! Le fragole con la panna! Mussolini ha fatto anche cose buone!”
Spoiler: no.
Pensioni. I primi sistemi previdenziali statali furono istituiti nel 1898 dell’Ottocento per i dipendenti pubblici; nel 1919 le pensioni furono estese ai lavoratori del settore privato. Il regime fascista consolidò su alcuni aspetti le misure già esistenti e, nel 1933, trasformò la Cassa nazionale delle assicurazioni statali in Istituto nazionale fascista di previdenza sociale, ma non “creò le pensioni”.
Bonifiche. Il regime fascista investì ingenti risorse per bonificare le paludi dell’Agro Pontino, e la propaganda versò fiumi di inchiostro per celebrare l’impresa, presentandola come una “creazione” del fascismo. Le bonifiche, in realtà, erano iniziate prima del regime. Inoltre, i risultati erano di gran lunga inferiori a quelli dichiarati. Il fascismo annunciò di aver bonificato quattro milioni di ettari, ma, come evidenziato da uno studio recente, circa 1,5 milioni erano stati bonificati dai governi precedenti e su altri due milioni i lavori non furono terminati. La bonifica pontina, insieme a quella di altre aree, sarà portata a termine dai successivi governi democratici.
Case popolari. La prima legge sulle case popolari è del 1903, emanata su impulso e per volontà di Luigi Luzzatti, deputato liberale, economista ed ex ministro del Tesoro, che poi sarà presidente del Consiglio, mentre i maggiori progetti di sviluppo urbano nelle grandi città nascono tutti nei primi 15-20 anni del Novecento.
Treni in orario. I lavori di ristrutturazione della rete ferroviaria italiana erano stati compiuti prima del fascismo. Nonostante ciò i ritardi continuavano a esserci, ma venivano nascosti, avendo il regime fatto della puntualità un proprio cavallo di battaglia.
Tredicesima. Il ccnl stipulato il 5 agosto 1937 introduce l’obbligo di corrispondere una mensilità aggiuntiva rispetto alle 12 annuali solo agli impiegati del settore industriale. Sarà l’accordo interconfederale per l’industria del 27 ottobre 1946 a estendere il trattamento anche agli operai. Tale accordo è stato reso efficace erga omnes con decreto del Presidente della Repubblica 1070/1960.
Cassa integrazione. La cassa integrazione viene istituita con il decreto legislativo 788 del 9 novembre 1945 relativo alla “Istituzione della Cassa per l'integrazione dei guadagni degli operai dell'industria e disposizioni transitorie a favore dei lavoratori dell'industria dell'Alta Italia”. Mussolini aveva già conosciuto da alcuni mesi Piazzale Loreto.
Scuola pubblica e politiche giovanili. L'inizio della storia della scuola elementare italiana si può far risalire al 1859, anno in cui il ministro della Pubblica istruzione del Regno di Sardegna, Gabrio Casati, presentò e fece approvare il regio decreto legislativo 3725 del 13 novembre 1859, noto come “legge Casati”. Mussolini non era nemmeno nato. Talvolta si dice che il regime fosse riuscito a “togliere i giovani dalla strada”. La realtà è diversa. Le organizzazioni giovanili create dal regime servivano per irreggimentare i giovani, indottrinarli sul piano politico ed educarli al militarismo. La partecipazione alle esercitazioni militari e altre attività, pur non essendo obbligatoria, era di fatto imposta: anche nel loro tempo libero i giovani non potevano davvero scegliere cosa fare.
Potrei andare avanti con altri esempi, ma direi che non è necessario.
Ma allora perché si continua a equiparare tutto?
Perché fa comodo. Perché “in questo chiaroscuro nascono i mostri", diceva Gramsci. E allora chi vuole riabilitare simboli e pratiche fasciste, chi vuole bandire il dissenso dalle sale pubbliche o impedire l’uso di parole come "lotta di classe", ha gioco facile.
Equiparare fascismo e comunismo è diventato il trucco per sdoganare il primo e neutralizzare il secondo. Dire che sono la stessa cosa serve a dire che l’unico sistema legittimo è quello attuale. Cioè il capitalismo. Cioè la democrazia liberale occidentale. Tutto il resto è male. Tutto il resto è pericoloso.
Ma se si mette sullo stesso piano chi ha fatto le leggi razziali e chi ha scritto la Costituzione, si fa un’operazione ideologica. Non storica.
È lo stesso ragionamento per cui nessuno direbbe: “Anche le democrazie hanno fatto orrori, quindi democrazia e fascismo pari sono.”
Eppure…
la democrazia ha bombardato Hiroshima e Nagasaki
la democrazia ha finanziato colpi di stato in Cile e Argentina
la democrazia ha fatto colonialismo in Africa
la democrazia sta commettendo un genocidio in Palestina
Ma nessuno si sogna di dire che la democrazia è uguale al nazismo.
E allora perché il comunismo sì?
Lo storico Riccardo Sorrentino ha scritto:
La differenza irriducibile tra fascismo e comunismo è nel loro orizzonte etico:
la libertà dell’individuo o la sua negazione, l’uguaglianza universale o la gerarchia assoluta, la pace o la guerra.
Non si tratta di negare i crimini commessi in nome del comunismo. Si tratta di leggerli dentro la storia. Senza sconti, senza ipocrisia.
Perché no, il fascismo non è morto. Ha solo cambiato vestito. Si è tolto l’elmetto e si è messo la giacca. Parla di sicurezza, di famiglia, di decoro. Sta nei decreti, nei manganelli, nei fogli di via, nei meme. Si è mimetizzato e, adesso, consapevole o meno, torna a galla. Non parlo di CasaPound e simili, gruppi minoritari e folkloristici, facilmente riconoscibili. Parlo di chi è meno identificabile, per furbizia, per dovere, per un casco protettivo. Parlo di chi fa della repressione e del revisionismo la sua arma più potente e subdola.
Il fascismo, infatti, non ha bisogno di partiti per esistere. Non ha bisogno di sfilate in uniforme o saluti romani. È un impulso ricorrente: si ripresenta ogni volta che c’è desiderio di ordine, bisogno di capri espiatori, paura del diverso, nostalgia per l’autorità. Non è (solo) storia. È un meccanismo che si attiva nel linguaggio, nelle istituzioni, nella cultura.
Il comunismo, invece, non esiste più se non nei circoli, nelle università, nei libri, o come provocazione. È un’idea marginalizzata, svuotata di rappresentanza, spesso strumentalizzata per zittire chi contesta il sistema. Forse, a ben vedere, il “vero comunismo” non è mai esistito: come società egualitaria, senza classi, senza proprietà privata dei mezzi di produzione — è rimasto un orizzonte teorico, spesso tradito da chi diceva di realizzarlo. Eppure, oggi come in passato, è il comunismo a essere considerato un pericolo reale.
In Italia non è un’opzione politica: è un reato morale. Se ti dici comunista devi giustificarti. Spiegare. Chiedere il permesso. Viviamo in un Paese dove, per affittare uno spazio pubblico, un Comune può chiederti di dichiararti “anticomunista”. Dove se urli “viva l’antifascismo”, la DIGOS potrebbe identificarti. Dove i cortei si sciolgono, gli striscioni si sequestrano, i manifestanti si schedano.
Umberto Eco ha scritto:
Il fascismo eterno può tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è smascherarlo e puntare l’indice su ogni sua nuova forma – ogni giorno, in ogni parte del mondo.
L’Italia antifascista è diventata un paese dove essere comunisti è un problema, ma essere nostalgici di Mussolini è goliardia.
E quindi no: comunismo e fascismo non sono la stessa cosa. Non lo sono mai stati.
Il comunismo nasce come idea: come progetto per superare la disuguaglianza e costruire una società senza classi, senza sfruttamento. È un’utopia che ha preso forme diverse e che ha conosciuto grandi fallimenti. Ma non si è mai realizzato pienamente. Al di là della propaganda e della distorsione ideologica, quello che abbiamo conosciuto è un tentativo di sviluppare una forma di capitalismo di Stato sviluppando fino agli estremi l’economia “di guerra”, con l’obiettivo di coniugare un certo sviluppo economico, con la riduzione delle ricadute negative sui lavoratori. La società ideale del comunismo è una società omogenea. La sua base sociale era il mondo degli operai, soprattutto specializzati, che nella visione di Marx, avevano in potenza la capacità di assumere tutte le funzioni produttive.
Il fascismo o, meglio, il cesarismo (il legame stretto tra un leader autoritario e una massa di cittadini), si è invece realizzato più volte, e non è mai stato una teoria filosofica: è nato come regime, come soppressione delle libertà, come culto della forza, della nazione intesa come esclusione. Non si è limitato a immaginare un altro mondo: lo ha costruito, in fretta, e in modo spietato. Inoltre, è e resta attuale: è una scorciatoia pericolosa che riemerge ogni volta che si preferisce l’ordine alla giustizia, il nemico al confronto, l’obbedienza al pensiero. È l’estremismo delle classi medie, incattivite per i passi avanti che le classi operaie erano riusciti a fare, sia in termini sociali che in termini di riconoscimenti politici.
Equipararli, come oggi accade in troppe mozioni istituzionali, significa ignorare la storia. Ma significa anche colpire il presente, criminalizzando chi ancora oggi rivendica giustizia sociale, mentre si legittimano nostalgie autoritarie.
Per questo quarantatreesimo numero di Capibara è tutto. Questo numero non è un trattato di storia, ma una bussola per orientarsi nel mare di revisionismi e false equidistanze che tempestano le nostre giornate. Perché chi li mette sullo stesso piano, non sta facendo storia. Sta facendo cattiva politica. Una politica che confonde la memoria, nega le differenze, e disarma il pensiero critico.
Il 25 potreste trovarmi presso AEDICOLA LAMBRATE. Si parlerà di Costituzione. A presto e buona liberazione a tutte e tutti!
Mi salvo questa newsletter da rileggere prima di ogni cena di famiglia, grazie e buon 25 aprile!
Avete le vostre convizioni. Alcune "ci azzeccano"; per altre... lasciamo perdere (la storia, ma anche la Storia, sono un'altra cosa).
Comunque, il mio rispetto per l'impegno!
Max Basagni