Benvenute e benvenuti a un nuovo numero di Capibara, una newsletter umanista che fa ridere ma anche pensare. Un paio di numeri fa abbiamo celebrato l’importanza di essere se stessi e la fragilità come risorsa creativa.
Oggi, invece, vorrei partire dal paradosso dell’autoconsapevolezza: a che punto, da passo verso la libertà, rischia di diventare una gabbia? Fra qualche settimana, poi, chiuderò il ciclo parlando dell’importanza di chiamarsi Michele Serra.
So: se invece di guarire ci stessimo solo diagnosticando all’infinito? Se invece di liberarci, stessimo imparando a raccontare meglio la nostra prigione?
Viviamo in un’epoca in cui guardarsi dentro è quasi un dovere morale (e sociale). Ma a furia di guardarci dentro, abbiamo perso l’abitudine a guardarci intorno. Ci ascoltiamo tantissimo, e ci capiamo pochissimo.
Negli ultimi anni, l'interesse per la salute mentale è cresciuto in modo esponenziale. Secondo Google Trends, le ricerche per parole come "ansia", "trauma" e "auto-aiuto" sono aumentate del 300% dal 2013 a oggi. Nel frattempo, su Instagram, l'hashtag #mentalhealth ha superato i 60 milioni di post. Ma il dato interessante non è solo quantitativo, è qualitativo: la narrazione dominante è passata dal "come va?" al "in che fase del mio ciclo di attaccamento evitante mi trovo oggi?"
L'American Psychological Association ha rilevato che, negli ultimi anni, è aumentato l'uso distorto del linguaggio terapeutico. Espressioni come "gaslighting", "trigger", "boundaries" vengono usate in contesti impropri, contribuendo a una patologizzazione diffusa anche dei conflitti quotidiani più fisiologici. Con il rischio che ogni discussione venga scambiata per una dinamica tossica e ogni ex per una minaccia al sistema nervoso parasimpatico.
Il risultato è che ci stiamo autoanalizzando all'infinito. Ma secondo un celebre studio condotto da Tasha Eurich, autrice del libro Insight, solo il 10-15% delle persone è realmente consapevole di sé, pur credendo di esserlo. In altre parole, siamo pieni di insight sballati.
"Sto lavorando su me stesso" è il nuovo "ho da fare". Solo che non si capisce mai quando finisce il turno, e a volte rischia di diventare una forma di sospensione permanente dalla realtà, se non si traduce in azioni, relazioni, cambi di sguardo. Una metanalisi pubblicata su Personality and Social Psychology Review mostra che una consapevolezza eccessiva, non accompagnata da azione concreta, può aumentare ansia, indecisione e senso di inadeguatezza.
Più scaviamo, più perdiamo la direzione. Perché il rischio è che ogni frammento della nostra identità diventi un problema da risolvere. Ogni emozione negativa diventa un sintomo, ogni pensiero intrusivo una diagnosi, ogni relazione una dinamica da mappare con la precisione di un esperto di neuroimaging affettivo, come se vivere non potesse più contenere contraddizioni, dolore, inciampi. (Va bene, anche meno però).
E così ci troviamo come in quei sogni in cui si cerca di partire ma non si riesce a chiudere la valigia: ogni volta che pensiamo di aver capito qualcosa, scopriamo un nuovo nodo da sciogliere, o da pubblicare su LinkedIn.
L’antropologa Mary Catherine Bateson ha scritto che "la narrazione dell'io è diventata un atto solitario, mentre in molte culture era una costruzione collettiva". Nella nostra società, invece, il racconto di sé si è trasformato in monologo.
Ma l'ascolto autentico è dialogico. Secondo un recente studio pubblicato su Nature Communications, l'empatia e la cooperazione aumentano significativamente quando gli individui si espongono a prospettive diverse in contesti non giudicanti. Tradotto: non basta parlare di vulnerabilità, bisogna farlo insieme.
E allora forse dovremmo smettere per un attimo di interrogarci su chi siamo e iniziare a chiederci: Chi siamo insieme agli altri? Perché il senso di identità nasce nell’incontro, non nell’isolamento. Hannah Arendt ci ha insegnato che la verità non è mai una conquista solitaria, ma qualcosa che emerge nel dialogo, quando due si incontrano. Non quando uno si fa 300 domande davanti allo specchio.
C’è sempre un perché per tutto, ma non sempre è riscontrabile. Spesso non è necessario porsi il problema. L’attivista Adrienne Maree Brown parla di "radical imagination" come capacità di uscire dalla narrazione dominante dell'io performante. Disidentificarsi è smettere di dover sempre "funzionare" per essere.
Questo non significa ignorare le proprie ferite, ma non usarle come carta d'identità; non significa evitare l’introspezione, ma riconoscere che non tutto ha bisogno di essere spiegato o risolto per essere vissuto.
Non siamo solo il nostro trauma, il nostro percorso, il nostro enneatipo. Siamo anche il gatto del vicino, il messaggio ricevuto per sbaglio, la persona che abbiamo aiutato senza farci uno storytime.
C'è un tempo per capirsi e un tempo per lasciarsi stare. E c'è un tempo per capire gli altri e le altre, che forse abbiamo un po' dimenticato.
Alla fine del film Magnolia, piovono rane. È un evento assurdo, inspiegabile, biblico o grottescamente reale. Ma serve a qualcosa: ferma tutto. Interrompe l’analisi, le giustificazioni, le fughe. Costringe i personaggi a fare una cosa che sembrava impossibile: smettere di pensare e iniziare a guardarsi l’un l’altro.
Forse anche noi, ogni tanto, abbiamo bisogno di una pioggia di rane. Di qualcosa che ci sorprenda, che ci svegli dall’autonarrazione infinita.
Ascoltarsi meno non vuol dire smettere di pensare o di lavorare su se stessi, anzi. Vuol dire aprire le finestre, ogni tanto. Far entrare voci nuove. Perché le domande più importanti a volte arrivano da un amico, da una fila alle Poste, da un libro aperto a caso, o da un coniglio incrociato al parco che ti fissa e sembra dire: “Almeno oggi non pensare troppo, ok? Coglione.”
A proposito di cog… voci nuove, sabato prossimo sarò al circolo ARCI esTerna di Milano, insieme a tanta bella gente. Proverò a far ridere ma anche pensare, non so ancora bene come.
Per questo quarantaduesimo numero di Capibara è tutto. E voi? Quando è stata l'ultima volta che vi siete ascoltati troppo e avete dimenticato di ascoltare il resto del mondo?
Grazie🧡