Benvenute e benvenuti a un nuovo numero di Capibara, una newsletter umanista che fa ridere ma anche pensare. State passeggiando per una città, diciamone una a caso… Milano. Guardando i cartelloni pubblicitari notate una banca che vi dice che è "più di una banca", un'auto che è "oltre l'auto", un orologio che è "nato per osare".
Siamo circondati da parole che non significano nulla, ma che ci danno l’illusione di significare qualcosa. La pubblicità è il regno delle frasi passepartout, formule pronte all’uso che suonano bene, ma che potrebbero adattarsi a qualsiasi prodotto.
“Molto più di…” è una delle preferite dai copywriter pigri o a corto di idee. Funziona perché lascia un alone di mistero e superiorità, ma se qualcosa è molto più di un’automobile, allora cos’è? Una lavatrice? Un cavallo? Il Manifesto di Ventotene?
Poi c’è "oltre", il jolly assoluto. Il pane oltre il pane. Il divano oltre il divano. Il caciocavallo oltre le mode. Il bello è che più l'affermazione è vaga, più sembra importante. Oltre cosa, esattamente? Non è dato sapere.
Infine, il grande classico della pubblicità: "Non è mai stato così facile". Ma è davvero così facile risparmiare, volare, dimagrire? No, ma il punto non è dire la verità: il punto è far credere che tutto sia a portata di mano, mentre vi vendono un finanziamento a tasso variabile.
Se la pubblicità è la palestra delle frasi fatte, la politica ne è la cattedrale. Qui non si vendono solo prodotti, ma interi mondi possibili. Il problema è che anche questi mondi, spesso, sono costruiti su slogan che non vogliono dire niente.
Sul palco, un politico arringa la folla con frasi come "Riporteremo la dignità al nostro paese!" o "Insieme costruiremo un futuro migliore!". Parole che risuonano potenti, ma che sono prive di contenuto concreto. Questo è il potere delle parole vuote: evocano emozioni senza fornire sostanza.
La retorica politica spesso si avvale di queste espressioni per mascherare l'assenza di proposte reali. Un articolo de Linkiesta sottolinea come, in Italia, una certa arroganza verbale nasconda l'inconsistenza delle proposte, con politici che preferiscono demonizzare l'avversario piuttosto che presentare programmi.
I populisti “hanno devastato questo Paese”, rivoluzionato la comunicazione politica utilizzando un linguaggio diretto, emotivo e privo di filtri. Essi non parlano "alla gente", ma come la gente, creando un senso di identificazione immediata. Questo approccio ha messo in crisi i partiti tradizionali, prigionieri di retoriche obsolete e incapaci di comprendere le nuove dinamiche sociali. Il successo di questi partiti e di questo linguaggio si deve in gran parte al fenomeno dello svuotamento dello spazio politico: hanno avuto la capacità (da essi rivendicata) di colmare questo vuoto lasciato dai partiti tradizionali, di agire sulla perdita di legame tra dimensione politica e cittadinanza.
L'uso di slogan semplici e accattivanti permette di affrontare temi complessi con risposte immediate, soddisfacendo il bisogno di certezze in un mondo incerto. Tuttavia, questa semplicità può diventare pericolosa quando riduce la complessità della realtà a una dicotomia manichea, alimentando divisioni e pregiudizi.
Ma perché le parole vuote e gli slogan populisti funzionano così bene? La risposta risiede nella nostra psicologia. Gli esseri umani sono attratti da messaggi che evocano emozioni forti e che offrono soluzioni semplici a problemi ampi e intricati. La retorica populista sfrutta queste inclinazioni, parlando al cuore (alla pancia) più che alla mente, e creando un senso di appartenenza attraverso l'identificazione con il leader o il movimento.
Funzionano così bene che anche i cosiddetti partiti tradizionali, invece di trovare un nuovo e proprio linguaggio, sono caduti nella trappola e hanno iniziato a usarli (con meno successo).
Il populismo ci ha insegnato che i messaggi più efficaci sono quelli brevi, emotivi e vaghi. Perché un “È colpa loro” è molto più efficace di una noiosa analisi sui fattori socio-economici della crisi.
George Orwell lo aveva previsto!!1! In 1984 introduce il Newspeak, la neolingua del regime totalitario. Le parole vengono svuotate del loro significato originale e riempite di nuovi contenuti, funzionali al potere. Più restringi il linguaggio, più restringi il pensiero. Se tutti i problemi hanno una soluzione semplice (“basta tasse”, “prima gli italiani”, “cchiú pilu”), nessuno si prenderà la briga di approfondire.
Tutti messaggi che suonano bene, ma che non spiegano come e con quali strumenti si raggiungeranno questi obiettivi.
Le parole però non sono solo strumenti per vendere o raccogliere voti. Sono il modo in cui organizziamo la nostra visione del mondo e la loro precisione è fondamentale.
“Permettetemi di iniziare così: le parole sono importanti. Le parole sono importanti quando sei candidato alla presidenza, e sono molto importanti quando sei il Presidente.”
Chi parla non è Nanni Moretti, ma Hillary Clinton, da un lontano passato, la fine di settembre del 2016. Qualche mese dopo e poi, di nuovo, qualche anno dopo, il mondo è cambiato, è un mondo in cui si analizza la lingua di chi ha vinto. Il linguaggio di Trump è semplice ed è uno dei fattori principali che si nascondono dietro alla sua vittoria. Per quanto si tratti di un principio valido nei più diversi frangenti della vita di ogni persona, riuscire a comunicare in maniera efficace è una competenza non solo auspicabile, ma indispensabile per chiunque intenda governare una superpotenza.
In un panorama in cui la comunicazione politica si gioca sulla capacità di attirare attenzione, indignare e polarizzare, Trump ha costruito un discorso che rompe deliberatamente con il decoro e le convenzioni del linguaggio politico tradizionale. Questo approccio non è solo un segno di rottura rispetto al passato, ma un indicatore delle trasformazioni più profonde che hanno investito il modo in cui il potere viene esercitato e percepito nella società contemporanea.
La politica si è fatta volgare e Trump lo sa bene tanto da esserne uno degli esempi più evidenti. Il suo linguaggio, secondo un test nato nei laboratori dell’esercito USA, presenta una complessità sintattica comprensibile da uno studente di quarta elementare, sia per la struttura delle frasi, sia per il lessico, sia per la scarsa padronanza della grammatica. Questo tipo di linguaggio, questa narrazione, funziona. Il vigore del linguaggio di Trump risiede infatti nel disinteresse totale riguardo qualsiasi analisi del linguaggio stesso. Più esageri, più si riduce il rischio; e si dice che Trump sia sprovvisto di consapevolezza. Si dice anche che i calabroni volino senza rispettare le leggi della fisica: è stato dimostrato che è falso.
La lingua di Trump è solo un esempio eclatante della comunicazione politica del nostro tempo: volgare, imprecisa, menzognera, violenta. Ci basta giocare in casa per averne un altro esempio condito di romanesco. Come si scivola dalla violenza delle parole alla violenza politica? In che modo ciò è un sintomo dello stato della democrazia? La lingua di Trump non è altro che uno specchio implacabile della nostra epoca.
La politica e la pubblicità spesso sono una serie continua di punchline, scie fluorescenti nel buio che, a parte il botto, restano vaghe, perché più si è vaghi più è difficile smontarti. Provate a contestare uno che dice “Vogliamo un'Italia più forte”. Forte in che senso? Militarmente? Economicamente? Nelle sfide con le Beyblade? Boh.
La chiarezza è rivoluzionaria. Essere precisi significa prendersi delle responsabilità. È per questo che uno slogan come "Just Do It" è diventato immortale: non è solo una frase, è un programma d’azione.
Per questo quarantunesimo numero di Capibara è tutto. Le parole sono leggere, ma non per questo devono essere usate con leggerezza nel tentativo di distrarci dal vuoto. In un'epoca in cui la comunicazione è dominata da slogan, frasi fatte e da trend che sono la copia di una copia di una copia, è fondamentale sviluppare un pensiero critico che ci permetta di andare oltre la superficie. Chiediamoci sempre cosa si cela dietro un'espressione accattivante e pretendiamo contenuti concreti da chi ha responsabilità e poteri maggiori dei nostri. (Come diceva lo zio? Da grandi poteri deriva grande retorica?) Solo così potremo costruire una società in cui le parole tornino ad avere peso e significato, e in cui la retorica sia al servizio della verità e non dell'inganno.
La prossima volta che vi diranno che qualcosa è oltre, che un prodotto è più di un prodotto, che non è mai stato così facile, fate un favore a voi stessi: chiedete il come e il perché.
Visto che Capibara è molto più di una newsletter, vi rimando all’ultimo episodio del podcast, dove parlo di una delle cose più pubblicizzate e retoriche del mondo, di quel sentimento che riempie libri, canzoni e film, ma che nella vita reale è un po’ più complicato, con un contributo della psicoterapeuta Arianna Capulli.
Quali sono le parole vuote che sentite più spesso? Dai che facciamo una bella collezione di frasi che non significano niente.
Ascoltando molta radio sto sviluppando un'insofferenza letale per il "ma sì", utilizzato in più pubblicità per confermare senza uno straccio di spiegazione una frase che non vuol dire niente. "È nella crunchy zone!" "Cosa?" "Ma sì!"
Il resto del campionario pubblicitario l'hai illustrato bene tu (le pubblicità di auto mi fanno paura da anni: "Senza cuore saremmo solo macchine", bello, ma senza cuore saremmo solo morti), su quello politico temo che potremmo rimanere qui ore...
"Cioè" all'uso dell mio vicino di casa, sintetico-concettuale (lo si sente parlare anche quando sta zitto).
"E poi alla fine mi ha lasciato. Cioè.".
"Mi hanno chiamato da lavoro dicendomi che non potevo portarmi a casa il pc.Cioè."
"Torno al parcheggio e trovo la fiancata rigata. Cioè. "
Pausa di un paio di secondi.
Ripresa del discorso.
Credo che in quel "Cioè" voglia condensare tutte gli impliciti, le prefigurazioni, l'indicibile che non riesce a esprimere a parole.
"Voglio dire.", sempre al termine di una frase. Enfatico, egoico, multiplo.
"L'ha chiesto un po' a tutti e alla fine pure a me. Voglio dire." L'intonazione è un ibrido fra punto, punto esclamativo e tre puntini di sospensione.