Benvenute e benvenuti a un nuovo numero di Capibara, una newsletter che fa ridere ma anche pensare. Ridere. Pensare. Il payoff di questa newsletter vuole essere ironico, canzonare una frase fatta, ma questi due termini, queste due azioni così vitali, sono da sempre strettamente collegate. Tranne nei casi come quelli di Pio e Amedeo, la comicità nasce spesso da un particolare modo di pensare, e di sentire. Spesso è proprio negli animi coi pensieri più scuri e i sentire più grigi che la comicità trova terreno fertile, magari come forma di difesa, come reazione al non lasciarsi andare, come tentativo di portare leggerezza negli altri, non trovandola in se stessə, anche quando si tratta di temi più delicati. Il successo della Stand Up Comedy (e dei meme) credo sia tutto qui. C’è bisogno di ridere delle storture di questi tempi, per evadere, ma anche per razionalizzare e affrontare.
“Una risata vi seppellirà” è una frase dell’ottocento attribuita all’anarchico Michail Bakunin, la si è vista scritta sui muri di Parigi nel ‘68. In Italia ha avuto grande diffusione nel 1977 dove veniva scritta o urlata durante le proteste studentesche, prima che si arrivasse agli anni di piombo. Il ritornello completo era: “la fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà!”. Una frase che faceva paura, non a caso a Bologna lo Stato inviava, oltre le normali forze di polizia, i carri armati come deterrente alle manifestazioni. Oggi credo che quella frase continui a mantenere una carica dirompente contro un certo sistema politico precostituito. Tutte queste considerazioni sembrano appartenere a un “dejà vu”, ma non lo è. Dopo più di un secolo, la risata continua a essere rivoluzionaria. E anche la verità. E anche il coraggio.
Ma se “Quis custodiet ipsos custodes?”, io dico Quis comicos ridet? (ho usato il traduttore, andavo male in latino).
Quella locura italiana, quell’orgia messianica chiamata Sanremo, è finita, andate in pace? Non proprio, anzi. Penso si possa ridere di tutto, nello stesso modo in cui credo non esistano luoghi in cui non sia possibile fare politica. Circoscrivere risata e politica a pochi temi e a pochi palchi selezionati significa ridurre le possibilità di confronto.
Onore a Dargen D'Amico e a Ghali che con poche semplici parole hanno fatto emergere le blatte dalle loro poltrone, ma non voglio parlare di questo e non so perché mi sono infilato in questo discorso, avevo in mente tutt’altro.
Qualche giorno fa, tra le storie Instagram di bebo, è comparso un pensiero che, sarò sincero, non mi aspettavo di leggere. Ma quando mai ce lo si aspetta? Così gli ho scritto che sarebbe stato bello un pezzo a partire da quel vissuto e che avevo in mente un numero di Capibara proprio su quello, sulla depressione. Poi abbiam parlato di squacquerone.
Poi da questo Sanremo è uscito anche altro e le due cose si sono incontrate. Ho controllato le email perché sapevo che sarebbe arrivato qualcosa.
Qualcuno con cui parlare
Ieri, era il 15 febbraio, un giovanissimo cantante molto famoso chiamato Sangiovanni ha deciso di rinviare l’uscita del proprio disco e la data al Forum di Assago, prevista per ottobre. I motivi, facili da intuire, sono legati alla salute mentale.
Tutti parlano di salute mentale, ultimamente. Penso sia una cosa importante, anche giusta. Ma è anche importante non pensare che la propria esperienza abbia un valore di universalità tout-court. Se io racconto il mio e tu racconti il tuo solo allora possiamo scoprire di non essere soli. O, almeno per me, sembra essere questa la cosa importante. Perché quello che ho notato, anche vivendolo, è che raccontare la propria storia dentro un social network –come facciamo ora– o dentro una pagina bianca come si faceva prima con i blog e poi le newsletter, serve solo a metà dell’opera. L’opera che è, con baratri e celesti ascese, la vita. La vita che è fatta, con attitudini e ritrosie, dello stare insieme alle persone. Le persone con cui nasciamo, le persone che ci scegliamo, ma pur sempre stare in mezzo agli altri. Anche se un solo altro, anche se un solo altro altrove.
E quindi bene che se ne parli, ma io direi ancora meglio se ne parliamo, disintermediando. Che è una parola difficile e bellissima, secondo me, e da quando l’ho scoperta molte cose della mia vita si sono alleggerite di un carico che prima temevo fosse insopportabile e poi è ritornato ad essere gestibile. Non dico facile, ma nella norma.
Il problema, uno dei, è la vita intermediata da ciò che dovrebbe essere strumentale ma diventa oggetto centrale. Dicevo prima dei social e delle newsletter o dei blog, mezzi di comunicazione con gradi diversi di intermediazione su cui non abbiamo pieni poteri, così come WhatsApp o Telegram che prevedono una comunicazione diacronica e in cui possiamo permetterci l’evitamento a discapito dell’interlocutore o anche bloccare chi non ci va a genio, riducendo sempre di più questa intermediazione arrivando alla relazione in persona, anche qui, ho scoperto quanto si intermedia su chi abbiamo davanti. Per anni –per qualcuno ancora oggi– sono stato descritto come un timido iracondo, etichetta che mi faceva sorridere e che non mi sembrava distante dalla realtà, finendo per adeguarmi io stesso a questo combinato disposto descrittivo. Eppure ero una persona socievole, sono ancora oggi una delle persone più socievoli e disponibili che conosca, forse anche un po’ fesso nel mio essere “un buono”. Mi sono detto: sarò davvero così? Sto divagando.
Quando parlo di disintermediazione intendo suggerire di abbandonare gli stereotipi, le immagini, le generalizzazioni che ogni giorno usiamo per risparmiare energia cognitiva, ma che alla fine della giornata penalizzano noi e soprattutto il mondo che ci circonda.
Sedersi al tavolo di un bar con la persona più cara che si ha lasciando ogni nostra credenza su chi abbiamo di fronte sull’uscio, chiedendo che sia anche l’altro a farlo. Non vorrei avvicinarmi all’abusata frase “praticate gentilezza a casaccio etc.”, ma vorrei andare verso la fisica teorica, l’esplorazione del cosmo e dell’infinitamente piccolo, vorrei che togliersi di dosso questi pensieri intermediari fosse il prodromo per esplorare lo spazio che ogni relazione umana merita. Per sentire un dato di libertà che, nel mondo di oggi, è sempre meno visibile.
Ed è anche per questo che Sangiovanni si è depresso.
Come mi ero depresso io tanti anni fa.
Come si deprime ogni tanto quell’amico mio che viene in tour con me.
Come si deprime una buona fetta di popolazione mondiale.
E come scrisse Mark Fisher: “la depressione, dopotutto e soprattutto, è una teoria sul mondo”.
Io non sono un professionista della salute mentale, mi occupo di far stare bene le persone facendo le canzonette o scrivendo dei libri, vado a prendere per la giacchetta il loro tempo libero. Che non è un caso si chiami proprio così: tempo - libero. Perché in questo mondo tardo-capitalista la libertà è connotata dalle ore senza i doveri e con le proprie scelte. È un tempo sempre più fagocitato dal lavoro, dall’attenzione per i social, le chat, le email, l’infinita reperibilità. C’è un bel libro sull’argomento: Cronofagia di Davide Mazzocco. Leggetelo, è anche breve. È un tempo, quello di libertà, sempre più residuale, sempre più minacciato. Nel non avere libertà io ho visto troppo spesso i sintagmi delle mie depressioni. Sangiovanni ha detto di no a un disco e a una data importante per tutelare la propria salute, ma quello che non ha detto suona ancora più feroce e descrittivo di come funziona la nostra industria e in generale il mondo: devi fare, devi fare, devi fare. Sangiovanni oggi e io più di un decennio fa, abbiamo cominciato a dire di no alle richieste dei doveri e a circoscrivere malamente un confine di libertà personale. Come Bartleby di Melville che dice “i would prefer not to”.
Un’ultima cosa, poi chiudo questo pilotto non richiesto: quando avevo la faccia appesa, un peso nel petto e i piedi pesanti, lavoravo nella logistica di un grande magazzino di bricolage. Molti amici andavano all’università, anche la mia ragazza dell’epoca era universitaria, quasi chiunque frequentassi o conoscessi non si svegliava alle 5.30 per chiudersi in un prefabbricato di cemento. A parte Rocca, che eravamo colleghi. La prima volta che ho pensato di ammazzarmi non ero disperato in un angolo con una siringa o la boccetta dei farmaci.
Succede, certo. Ero con una bruttissima divisa giallo\blu, le scarpe antinfortunistiche e stavo caricando della merce su uno scaffale, attorno a me clienti e colleghi, le luci dei neon e roba per verniciarti la ringhiera di casa. Non escludo nemmeno che fuori ci fosse il sole e una tiepida giornata autunnale. Ero un ragazzo perfettamente inserito nel contesto. Chi l’avrebbe mai detto? Nemmeno io l’avrei mai detto, infatti è la prima volta che lo racconto all’infuori di poche anime che sanno tutto.
A Sangiovanni e a noi tutti auguro giorni più sereni.
E, dopo aver condiviso le nostre esperienze su un social o in una chat, auguro di trovare un antidoto alla solitudine.
E, dunque, qualcuno con cui parlare.
In un suo recente post che vi invito a leggere, Ghemon dice: “abbiamo bisogno dei dischi di un altro Tenco, non del suo tragico finale”.
Ho avuto modo di vivere dall’interno le dinamiche del mercato musicale e, anche se in piccolo, mi son reso presto conto di come il numero dovesse avere sempre la meglio sull’artista, che veniva messo, non in secondo, ma in terzo/quarto piano. Pur essendo, nei ruoli, dalla parte di coloro che dovevano pensare ai numeri, con la testa e il cuore ero sempre dalla parte dell’artista. Sono in tantə a essersi apertə confessando le proprie frustrazioni e io, nel tentativo ostinato di far andare le cose bene per tuttə, ma soprattutto per loro, mi ritrovavo spesso nudo al centro di una guerra. Così, dopo un po’, ho mollato.
Per strada o in un locale, parlavano al telefono, poi mi notavano: "scusa chiudo che qui c'è una persona importante". Sapevo che era un'esagerazione, un "ciao grande" sotto mentite spoglie, ma non capivo se, almeno in parte, credessero a quelle parole, a quel sorriso, o se mi prendessero in giro, ché io non mi son mai sentito importante per nessunə.
Quando ho mollato ho capito che non credevano davvero a quelle parole. Chi, invece, ci credeva era chi veniva da me non a dirmi “ciao grande”, ma a dirmi “Gab, chi cazzo me lo fa fare?”
Quando Mark Fisher ha dato un volto sociale e collettivo alla sua depressione, parlare della natura politica di questo stato mentale, così pervasivo e tipico nel mondo contemporaneo, ha smesso di essere un tabù. I tempi morti in attesa di un futuro spaventoso, la sensazione di vivere in un mondo grande e terribile, il senso d’impotenza e inadeguatezza rispetto a esso, se non l’angoscia di essere fallitə, in tutti i possibili sensi, e la crudele incapacità di vivere, non erano più le caratteristiche di storie isolate e nascoste. Queste passioni tristi diventavano capaci di connettere luoghi, modi e forme di vita con la loro specificità seppur accomunati dalla consapevolezza di condividere lo stesso piano esistenziale.
La depressione, in grado di cadenzare il ritmo di tante vite, tuttavia, raramente assume toni romantici e fatalisti; perlopiù non conduce alla ribellione o a un rifiuto; non tende a prendere la forma aristocratica e anarchica del flȃneur, fieramente inadatto, in grado di opporre l’ozio e la creazione individuale a ogni forma di oppressione collettiva, di affermare l’incontrollabilità della vita contro ogni categoria posta al di sopra di essa; essa vive ripiegata, riflessa su pareti in cui il proprio “io” diventa una gabbia inevitabile, un schermo che deforma senza pietà ogni percezione.
La risposta di Fisher a questa apparente trappola di impotenza individuale mi è sempre sembrata definirsi attorno a un complesso vitalismo in cui la depressione smetteva di essere una patologia da denunciare e curare; depurata da narcisistiche dinamiche di colpa, essa veniva, invece, canalizzata nel desiderio di politicizzare ciò che nella propria vita appariva insostenibile, nel bisogno di conflitto e, così, legata a una rabbia capace di riconnettere soggettività, di aprire una breccia in quello che lui chiamava “il castello dei vampiri”. Depressione e malinconia, appunto, non si manifestano soltanto all’interno degli individui e della loro esperienza personale, per quanto comune e condivisa; in quanto affetti del presente, sono divenute pesante patrimonio politico della modernità. La stesso teorico inglese, infatti, legava questi stati anche all’assenza di organizzazioni e pratiche solidali all’interno della vasta galassia progressista, afflitta dall’individualizzante culto della purezza.
Da un punto di vista più sistematico, il negativo, inteso come forza problematizzante, creativa e conflittuale, costituisce una delle colonne portanti della tradizione dialettica (e non solo), così come il motore affettivo di tanto “pessimismo” (soprattutto nell’arte). Qui, appunto, le passioni tristi non esistono come afflizioni e condanne, ma diventano strumenti attraverso i quali è possibile trovare nuova forza d’agire.
In tal senso, una rilettura politica della depressione e della malinconia si può fare legandosi al concetto di appocundria e all’opera del suo più grande interprete contemporaneo: Massimo Troisi. Questa complessa emozione è stata oggetto di diverse letture: noia, accettazione fatalistica, insoddisfazione esistenziale, struggente malinconia. In ognuna di esse, appocundria indica uno stato vicino a quello depressivo, un malessere connesso all’inazione e all’insoddisfazione. Allo stesso tempo, questa “passione” non assume la forma di una chiusura narcisistica, né un invito all’autocompiacimento solitario, quanto un continuo e irrisolto richiamo alla vita.
Quest’inquietudine e vena d’inadeguatezza erano in Troisi continuamente ripresi nei suoi gesti, che avevano una poetica universale. Raccontavano una malcelata fragilità soprattutto di fronte alla passione amorosa, al desiderio, all’impossibilità di reprimerlo, e alla sua incostanza, all’essenza mutevole dei sentimenti.
Autoironia e irrisolutezza sono caratteristiche ricorrenti della poetica di Troisi; per quanto riguarda la prima potremmo spiegarla come sintomatica di una più “evoluta” idea di mascolinità. Invece di trovarci di fronte alla tipica figura romantica maschile, Troisi ci offre la densità della nevrosi, del disagio che deriva dall’impossibilità di riconoscersi, e la consapevolezza delle propria vulnerabilità. Allo stesso tempo, come sottolineava David Foster Wallace, l’autoironia tradisce, in molti casi, anche una profonda inabilità nel prendere sul serio fenomeni artistici e sociali, e di compensare tale mancanza con un apparente distacco.
L’autoironia di Troisi raramente serve un intento riflessivo ed egocentrico e sembra mossa, piuttosto, dal desiderio di evitare la concentrazione su sé stessi, anche allo scopo di esorcizzare la costante presenza della morte sul proprio vissuto. I suoi personaggi nutrono una comicità malinconica proprio perché cercano continuamente di smontare la drammaticità e la centralità del proprio disagio; trasmettono una difficoltà nel gestire i propri sentimenti ed esprimerli, nel trarre un senso definitivo da situazioni e interazioni in cui si trovano coinvolti ma, per quanto concentrati su questa fragilità, evitano di farne un guscio. L’ironia, in questo caso, proietta verso l’esterno, diventa uno strumento per ricordare ai personaggi, e a noi, che il mondo è sempre più grande delle nostre piccole miserie personali e che, in un modo o nell’altro, siamo chiamatə a farne parte, che sono le relazioni, più che le immagini che nutriamo di noi stessi, a formarci. La vita va avanti e si può imparare a “soffrire bene”.
Per quanto riguarda l’irrisolutezza, si esprime attraverso lunghe inquadrature fisse, in cui l’interazione dei personaggi prende il sopravvento oltre ogni chiarezza. Allo stesso tempo, nel definire i rapporti, l’assenza di risoluzione permette di evitare facili consolazioni. La coppia visse per sempre felice e contenta? Forse, ma poco importa saperlo. Ciò che conta è che, per quanto possiamo provvedere spiegazioni per i nostri sentimenti, elaborare nuovi modi per affrontare le relazioni, la vita sta nel desiderio di continuare a esistere senza fare e farci troppo del male.
Il personale è politico in Troisi poiché pensare collettivamente e organizzarsi non significa concentrarsi esclusivamente sulla creazione di qualche nuova struttura e istituzione. Politica è l’arte della vita in sé stessa e occuparsene significa cercare di ripensarla, senza che, come in amore, assicurazioni di sorta ci vengano fornite precedentemente. La politica non può che essere comune perché, ancora una volta, sono le relazioni a fare in modo che le nostre singolarità si esprimano e trovino, andando a tentoni, il loro spazio nel mondo. Proprio per questo vediamo come il cinema, la poesia e la politica abbiano come forza condivisa anche quella di permettere alle persone di formare degli affetti comuni. Essere presi dall’appocundria, per Troisi, significa essere investitə da una profonda inquietudine, dal senso di anticipazione che accompagna la possibilità di affrontare un’esistenza degna guidatə dall’aspirazione di essere all’altezza dei suoi mutamenti. Forse non è un caso che Laggiù qualcuno mi ama si chiuda su Troisi che contempla la luna, punto di riferimento per malinconici e romantici.
La narrazione parzialmente autobiografica di Fisher contiene molti riferimenti alla società neoliberale, al suo contributo nel contrastare qualunque forma di uguaglianza sociale e alla sua ossessione per procedure di valutazione burocratizzate – e ha nel racconto della propria depressione di uomo e accademico uno snodo centrale.
Dall’antipsichiatria britannica alla Scuola di Francoforte, soltanto alcuni decenni fa tale relazione era oggetto di intense elaborazioni teoretiche e politiche. Al giorno d’oggi la popolarità di scritti come quelli di Fisher testimonia il fatto che quella conversazione era stata interrotta o relegata in circoli ristretti.
Oggi alcuni studi sono alle prese con il difficile compito di combinare un’analisi che includa il disagio psichico in una più ampia riflessione sulle conseguenze del neoliberalismo in termini di salute e non mancano anche in Italia tentativi di rilanciare il dibattito in chiave interdisciplinare.
Rispetto agli anni ’60 o ’70, la depressione si ripresenta qui in tutta la sua carica emblematica, incarnando la cifra di un’epoca, che a differenza di quella in cui fiorì l’antipsichiatria, ha perso la visione positiva del proprio avvenire: così come la persona depressa non riesce a proiettarsi nel futuro, il neoliberalismo ha tarpato ogni ambizione di un futuro migliore e differente, facendoci navigare a vista in un eterno presente.
Se da una parte il rapporto con il capitalismo è rilevante, credo che occorra districare la depressione da questo specifico contesto sociale ed economico per inserirlo in uno più ampio. L’aumento dei casi di depressione nella società neoliberale è palese e devastante, ma non va considerato come fattore causale unitario.
Inoltre, se da una parte parlare di depressione e, in generale, di salute mentale, è sempre meno un tabù, il rischio è quello di lasciare che lo stesso capitalismo ne cannibalizzi ogni significato in quanto ci vede, come in tutto, qualcosa da rivendere.
A Slope Point, il punto più meridionale dell’Isola del Sud, in Nuova Zelanda, le condizioni meteorologiche sono così estreme da portare gli alberi, piantati dagli allevatori di pecore per foraggiare gli animali, a crescere piegati.
Le correnti d’aria fredde e violente che arrivano dall’Antartide sono così intense e costanti che i pochi alberi sul posto crescono attorcigliandosi tra di loro come chiome svolazzanti.
Forse moltə di noi son come questi alberi, deformatə nella direzione in cui i venti soffiano, alberi selvaggi che conferiscono al luogo un’atmosfera quasi primordiale.
Sembra un oroscopo di Rob Brezsny. Sembra un pezzo di Paolo Nori.
C’è un paese, in Sardegna, che si chiama Seneghe, che per quattro giorni all’anno si trasforma nel paese della poesia, perché c’è un festival di poesia e sui muri c’è pieno di cartelli con le scritte dei poeti, come quella cosa di Wisława Szymborska che dice «Preferisco il ridicolo di scrivere delle poesie al ridicolo di non scriverne» e io l’ultima volta che ci sono andato, quest’anno, nel 2016, mi è venuto subito in mente una cosa che aveva scritto Zavattini nel 1967 a Franco Maria Ricci in una lettera che c’era scritto «Sono pessimista ma me ne dimentico sempre». E mi è sembrato che non si potesse essere pessimisti, in quei giorni lì, a Seneghe, e mi è venuto in mente Angelo Maria Ripellino, che quand’era in sanatorio, in Repubblica Ceca, che si curava, chiamava se stesso e gli altri ricoverati «i nonostante». «L’avverbio – aveva scritto Ripellino – si fa sostantivo, a indicare noi tutti che, contrassegnati da un numero, sbilenchi, gualciti, piegati da raffiche, opponevamo la nostra caparbietà all’insolenza del male». E ho pensato che per quelli che leggono i libri, che guardan le mostre, che ascoltano le sinfonie, i libri, i quadri, le musiche che hanno incontrato nella loro vita li hanno aiutati, in questa cosa così difficile e così strana, stare al mondo, a essere dei nonostante.
Restituire alla Luna
C’è questo posto, a Milano, dove mi fermo spesso a pensare, fumare una sigaretta, dare uno sguardo. Di solito sorrido, ma a volte scende anche una lacrima o due. Succede spesso sulla strada verso casa. È notte tarda.
Per questo luogo, che a dire il vero non è nemmeno così speciale, che quando ci porto le persone e gli dico: “Oh, questo è tra i posti più belli di Milano”, mi guardano sempre con lo sguardo perso come a non capire, perché magari stanno mancando il punto giusto da cui guardare la cosa. Non so cosa ci trovi personalmente nemmeno io, non riesco a farmi capire.
Una volta, con i miei coinquilini, siamo tornati a casa sui monopattini elettrici. 30 minuti di tragitto, ma nessuno di noi li aveva mai provati, questi strani veicoli che mi ricordavano tanto di quando ero bambino. Così li abbiamo presi. Siamo passati, a notte tarda, per il mio posto, intrecciando le direzioni e ridendo per le strade vuote, e senza dire niente ho sorriso e ho versato qualche lacrima.
In questo posto ho fissato dei picchetti nella mia testa: piccole sicurezze costruite su palafitte, salde nel fango, spinte a fondo fino a trovare qualcosa che, apparentemente, non si smuove. Penso funzioni così un po’ per tutti no? Le esperienze si accumulano, come sassi sul letto di un fiume. Viviamo variazioni degli stessi temi, osservando la medesima scena da tanti punti di vista giorno dopo giorno finché non fissiamo un picchetto, convinti di aver fatto chiarezza. Poi cambia tutto.
Cambia tutto perché costruiamo su palafitte, senza la speranza di possedere il terreno su cui edifichiamo. Cambiano gli affetti, cambiano i luoghi che chiamiamo casa, cambiano i pensieri che facciamo. Ci rendiamo conto di aver sbagliato a volte. A pensare di essere fatti in un certo modo. A convincerci che una persona reagisse in un certo modo a una nostra azione. A fidarci del nostro giudizio e dei nostri valori. E i picchetti sprofondano.
E pensare che alcuni di questi li ho incisi sulla pelle, tatuati, per stringere le mie convinzioni vicine a me, impaurito che potessero scappare chissà dove, tirando insieme le funi di una serie di pezzi che vanno alla deriva per conto loro, mentre le acque si ritirano. E mi rendo conto che, in realtà, ora posso vedere il percorso, i sedimenti di ciò che ho pensato sul letto del fiume. Compaiono alcune vecchie strutture che erano state solo abbozzate, non abbastanza solide da poterci costruire sopra, e riemergono le fondamenta affaticate delle nostre certezze.
Perdo l’interezza. Le acque risalgono, e nascondono di nuovo il letto del fiume. Rimangono alcuni spuntoni, che fuoriescono sul pelo libero, spesso contraddittori in apparenza. Io sono contraddittorio, frammentario, continuo solo perché si modificano contraddizioni e frammenti. Penso tutto e il contrario di tutto, stringo forte i denti per morderti la pelle tra un bacio e l’altro, urlo e strepito massime che si applicano a tutti, ma a me sempre un po’ di meno. Vorrei vivere da solo, per guardare i miei frammenti in giardino, ma allo stesso tempo vorrei mostrarteli, per farmi conoscere da te. E invece ho la testa che è un gomitolo informe, e non riesco a comunicarlo.
Non mi conosci, e io non ti conosco. Provo a stendere il filo, e sbrogliarlo, per farti vedere che qui in effetti sì, è un gran casino, ma di solito non è così. Di solito sono meno arricciato. Ma più tolgo i nodi e stendo la matassa e meno mi riconosco allo specchio, perdo filo e forma e affondo la testa tra le mani, per tenere insieme i pensieri. Mi riguardo allo specchio, con le mani impigliate, trascinate dagli occhi alle labbra e mi dimeno, urlo come un matto. Salto sul posto, a maledire la mia impotenza.
Mi arrendo! Lascio perdere, ci rinuncio! Volevo trovare una pietra solida su cui salire per agitare le braccia e chiamarti, ma è inutile, rincorro le mie contraddizioni a destra e a manca, senza trovare una sintesi.
Abbandono l’interezza, e restituisco i miei frammenti al fiume, fluttuanti e mutevoli, come i riflessi della luna, sulle acque increspate, a tarda notte.
Questo pezzo è di Diego Bindoni dell’associazione studentesca La Terna Sinistrorsa, che per una sera è stato mio collega di Stand Up. Gli ho chiesto se avesse del materiale sul tema e mi ha mandato alcuni pezzi dicendomi che non è mai riuscito a parlare di depressione, ma che quelli erano stati scritti, probabilmente, attraverso quella percezione della realtà.
Capisco cosa intende.
Io posso dire di aver mai parlato di depressione? Se consideriamo le volte in cui ho usato questa parola, no. Se consideriamo il fatto che così come uno vive, così scrive, allora sì. Anzi, credo che ogni mia singola frase scritta parli di depressione (e ansia). D’altronde scrivere mi aiuta e, quando lo faccio, non provo vergogna. Nelle parole presenti in alcuni numeri di Capibara credo si possa notare senza troppa fatica, soprattutto nel pezzo inserito alla fine del diciannovesimo. La diagnosi l’ho avuta non troppo tempo fa, perché solo non troppo tempo fa ho deciso di andare da uno specialista, ma ci convivo da quando ho 11 anni circa. I sintomi sono solo mutati e maturati nel tempo così come sono mutato e maturato io. Non so, però, cosa abbia avuto più influenza sulla crescita dell’altro, su ciò che ho vissuto e sul modo in cui.
Mio padre ne soffre e reagisce arrabbiandosi, mia madre ne soffre e reagisce cantando.
Io reagisco in modi diversi in base al periodo, sembra paradossale ma quelli che mi spaventano di più son i periodi in cui reagisco con più vitalità, perché avere energia a disposizione può non essere così positivo se dentro sei collassato, se tutti i tuoi ricordi sono legati al momento in cui ti sei reso conto di star male e tutti i tuoi sogni sono legati al momento in cui ti sei reso conto di non appartenere a quel letto.
Forse sentire tutto prosciuga da ogni tipo di energia. Forse tutto questo non è fatto per chi dice di non credere più a niente ma alla fine crede a tutto.
La prima volta che ho pensato di farla finita ci ho anche provato, poi non ci ho pensato più per un po’, poi di nuovo ci ho pensato per alcuni anni senza provarci, poi sì e non ci ho pensato più per un po’, poi di nuovo ci ho pensato.
Se hai bisogno di aiuto chiama i Samaritans tutti i giorni dalle 13 alle 22 al numero 06 77208977 o il Telefono amico allo 02 23272327, tutti i giorni dalle 10 alle 24 o invia un messaggio.
Per questo ventunesimo numero di Capibara è tutto. Non condividerò, quindi, un mio pezzo, non penso ce ne sia bisogno. Vi lascio, invece, con la poesia di Raymond Carver da cui ho tratto il titolo per questo numero.
La donna s'accascia nella cabina, singhiozzando
al telefono. Chiede un paio di cose
e singhiozza ancora più forte.
Il suo compagno, un anziano tutto
in jeans, sta lì vicino in attesa
che tocchi a lui parlare, e piangere.
Lei gli porge la cornetta.
Per un attimo restano insieme dentro
la minuscola cabina, mescolando
le loro lacrime. Poi
lei va ad appoggiarsi al parafango
della loro berlina. E ascolta
mentre lui prende accordi.Osservo tutto questo dalla mia macchina.
Neanch'io ho il telefono in casa.
Resto seduto al volante
e fumo, in attesa di prendere
anch'io accordi. Ben presto
lui riaggancia. Esce e si asciuga il volto.
Salgono in macchina e restano
dentro con i finestrini chiusi.
I vetri s'appannano sempre più
mentre lei gli si appoggia e lui
le cinge le spalle con un braccio.
I gesti meccanici di conforto in quell'angusto luogo pubblico.Vado con le mie monetine
verso la cabina e m'infilo dentro.
Però lascio la porta aperta, perché
si sta così stretti qui. La cornetta è ancora calda.
Non mi piace per niente usare un telefono
che ha appena portato notizie di morte.
Ma non ho scelta, perché è l'unico telefono
nel raggio di miglia e sa ascoltare
senza schierarsi da nessuna parte.Inserisco le monete e aspetto.
Anche quei due nell'auto restano in attesa.
Lui accende il motore ma poi lo spegne.
Da che parte andare? Nessuno di noi
è in grado di dirlo. Non sapendo
dove cadrà il prossimo colpo,
ne perché. Gli squilli all'altro capo
cessano quando lei alza la cornetta.
Prima che io possa dire due parole, il telefono
si mette a gridare: "T'ho detto che è tutto finito!
Finito! Puoi anche andare
all'inferno, per quanto mi riguarda!"Abbasso la cornetta e mi passo una mano
sulla faccia. Chiudo e riapro la porta.
I due nella berlina tirano
giù i finestrini e mi guardano,
le loro lacrime bloccate per un attimo
di fronte a questa distrazione.
Poi ritirano su i finestrini
e restano seduti dietro ai vetri. Per un po'
non andiamo da nessuna parte.
Ma poi andiamo.