Benvenute e benvenuti a un nuovo numero di Capibara, una newsletter umanista che fa ridere ma anche pensare. Essendo nata nel 2023, Capibara fa parte della Generazione Alpha; nata, quindi, con la tecnologia completamente integrata nella sua vita e in tempi di particolari preoccupazioni sociali ed ambientali. Troppo piccola, però, per rendersene conto. Ne riparliamo fra qualche anno.
Chi, invece, se ne rende conto è la Generazione Z, ed è di questo che proverò a parlare in questo numero.
Va detto che la classificazione delle persone in generazioni è un modo per semplificare la lettura della realtà. È una categoria priva di solide basi empiriche e poco utile a definire esperienze e valori condivisi.
Le tenniste americane e sorelle Venus e Serena Williams, sono nate rispettivamente nel 1980 e nel 1981. Apparterrebbero quindi a due generazioni differenti. Appartengono invece alla stessa generazione, per esempio, Donald Trump, nato nel 1946, e Michelle Obama, nata nel 1964.
Del modo in cui le persone utilizzano nei loro discorsi abituali la categoria di generazione, dei limiti di questa definizione e delle conclusioni fuorvianti a cui spesso conduce ha scritto sul New Yorker il critico e saggista Louis Menand.
Nel libro The Generation Myth: Why When You’re Born Matters Less Than You Think, citato da Menand, il sociologo Bobby Duffy, direttore del Policy Institute presso il King’s College, sostiene che la generazione sia soltanto uno dei tre fattori utili a spiegare i cambiamenti negli atteggiamenti e nei comportamenti delle persone. Gli altri sono gli eventi storici e quelli legati al ciclo della vita di ciascuno di noi.
La sua conclusione è che le persone di diverse fasce di età siano molto più simili di quanto emerga dai discorsi sulle generazioni, e che in generale la lettura dei fenomeni attraverso quei tre fattori sia anche utile a smentire luoghi comuni.
Sulla base delle analisi di Duffy, Menand contesta l’idea comune che la generazione Z sia il gruppo demografico principalmente responsabile di un cambiamento culturale profondo e di una trasformazione della società. E contesta molti altri stereotipi associati a quel gruppo, come l’idea che le persone di quella generazione siano dipendenti dalla tecnologia e “vittime” di essa.
Attribuire alla generazione più giovane – o a una generazione in particolare – una maggiore sensibilità rispetto a valori come la diversità o l’inclusione, per esempio, ignora il più delle volte il fatto che quei valori siano condivisi e trasversali a diverse generazioni.
Secondo Menand, utilizzare la categoria delle generazioni come lente di osservazione della realtà comporta il rischio di trascurare le reali dinamiche alla base dello sviluppo del tessuto sociale e di distorcere la storia di una popolazione.
L’analisi generazionale rischia soprattutto di trascurare la classe sociale, l’appartenenza etnica, il genere, lo status giuridico o altre precondizioni, come fattori determinanti per i comportamenti, le esperienze e le opinioni.
La Generazione Z è, infatti, molto più frammentata di quanto si creda. Da un lato, giovani donne attive in movimenti per la giustizia sociale e i diritti civili; dall'altro, una crescente fascia di giovani uomini che abbracciano posizioni razziste e antifemministe, fomentate dai social media. Mentre alcune celebrazioni digitali esultavano per la raccolta di firme a sostegno del referendum sulla cittadinanza, l'hashtag #bastan***i spopolava su X.
Negli ultimi vent’anni, il divario tra le opinioni politiche è aumentato a livello globale: se negli anni ’90 non c’era molta differenza tra uomini e donne di età compresa tra 18 e 29 anni nell’autodefinirsi su una scala da 1 a 10 da molto liberali a molto conservatori, oggi il 27% in più di donne si colloca a sinistra rispetto a vent’anni fa. Tra gli uomini, si è registrato un aumento solo del 2%.
Secondo un sondaggio del Survey Center on American Life, gli uomini della Generazione Z si sentono meno femministi dei Millennial (43% contro il 52%), una tendenza opposta a quella femminile. Metà degli uomini statunitensi concorda che “Oggi la società sembra punire gli uomini per il solo fatto di essere uomini” e crede che il proprio genere subisca discriminazioni. Uno studio del King’s College citato dal Guardian ha rilevato come un giovane su quattro sotto i trent’anni pensa che la vita sia più difficile per un uomo che per una donna. Il 16% dei maschi della Generazione Z pensa che il femminismo abbia causato più danni che benefici.
Ci sono diverse ipotesi sulle ragioni di questo divario. La più diffusa riguarda il livello di istruzione: in generale, le donne sono più istruite degli uomini e la frequenza di un’università è stata collegata a idee politiche più liberali ed egualitarie. Oltre che sulle opinioni politiche, il gap nell’istruzione si farebbe sentire anche nelle scelte di vita, di carriera e di relazione, portando le donne a essere più indipendenti. Questo scenario porterebbe gli uomini a considerare le donne come avversarie anziché come compagne.
Secondo Banet-Weiser, professoressa di comunicazione della University of Southern California, il collegamento tra queste disposizioni e l’ascesa del femminismo fra le giovani donne è diretto. Femminismo e misoginia, secondo lei, sono egualmente “popolari”, cioè non solo massificati, ma anche sempre disponibili attraverso la cultura pop e l’economia della visibilità. Nel femminismo pop, la questione della visibilità è centrale: oltre ad aver occupato l’immaginario attraverso le celebrity, la pubblicità e i media visuali, le femministe contemporanee hanno a cuore la questione della rappresentazione in ogni ambito della società. Di contro, gli uomini si sentirebbero accerchiati dalla visibilità delle istanze delle donne, elaborando una strategia di reazione che il professore di giornalismo Jack Bratich ha chiamato “volontà di umiliazione culturale”, che si manifesta nell’apologia della violenza e dell’intimidazione come pratiche politiche ammesse e nella popolarità di veri e propri bulli, come l’influencer Andrew Tate o lo stesso Donald Trump.
Le giovani donne si sentono oppresse dalla violenza e dalla discriminazione, mentre i giovani uomini pensano di essere sempre più irrilevanti nel contesto sociale e si sentono minacciati dall’ascesa economica e culturale delle loro coetanee. La lotta fra questi due movimenti si consuma però quasi esclusivamente nell’economia della visibilità.
Non a caso Internet viene considerato come un’altra causa della polarizzazione tra i generi. “Gli algoritmi ci catturano con contenuti che ci fanno paura o ci fanno arrabbiare, facendo sembrare il mondo più spaventoso e ingiusto di quanto sia realmente”, si legge in un’analisi dell’Economist. “Le donne che cliccano sulle storie del #MeToo ne vedranno sempre di più; idem per gli uomini che cliccano su storie di false accuse di stupro”.
Secondo Lilia Giugni, ricercatrice specializzata in questioni di genere, la questione è più complessa di così: “Al di là di Internet, bisogna individuare due specifici responsabili di questo stato di cose. Per prime, le grandi piattaforme social, che a causa del loro business model basato sull’estrazione dei dati, facilitano la circolazione di contenuti classificati come ‘divisivi’. Poi, gli attori politici, che negli ultimi anni hanno fatto leva sulle opportunità offerte sia dal malessere sociale che dal capitalismo di piattaforma per costruire una narrazione che ha fatto breccia in milioni di uomini, che si sono sentiti raccontare che le cause delle loro difficoltà sarebbero da imputare alle femministe”.
È chiaro quindi capire perché gli uomini intrappolati in questa crisi rivolgano lo sguardo ai politici conservatori molto più di quanto non faccia la generazione dei Boomer. Questi partiti, e i loro leader, tratteggiano un mondo in cui i ruoli di genere tradizionali vengono religiosamente rispettati e in cui la famiglia nucleare è la pietra angolare della società, ripristinando un’egemonia maschile che è messa in discussione. Non importa se questi partiti non abbiano alcuna soluzione concreta ai loro problemi materiali, ma anzi si facciano garanti del sistema capitalistico e degli interessi dei più ricchi e privilegiati. L’importante è offrire una visione alternativa e nostalgica dei rapporti tra i generi.
La Gen Z non è, quindi, unica, e non è solo quella di Tralalero Tralalà e Bombardiro Crocodilo; ha fatto anche cose buone. Come questo pezzo ricevuto Johnny:
Era il 2021 quando ho cominciato a girare l'Italia a teatro, parlando di teatro generazionale e autoproclamandomi voce della Gen Z. Una di quelle etichette che è comodo appiccicarsi quando vai in tournée in un festival di un mondo vissuto e posseduto dai vecchi, che avevano bisogno di una figura, possibilmente monodimensionale, con cui identificare le generazioni future.
Ed eccomi qua: il ventenne con i baggy pants che ascolta La Sad e non mette quattro parole in italiano una in fila all'altra senza dover usare un inglesismo o uno slang di internet.
Era una posizione comoda, la mia, perché mi basavo sulla convinzione - errata - che davano i miei Per Te di Tiktok e i classici titoli sensazionalistici di Repubblica e quel carrozzone editoriale. Entrambe visioni che dipingevano la Generazione Z come la più progressista e aperta della storia, che è per i diritti LGBTQIA+, ma anche per il salario minimo e una dignità lavorativa.
É passato un po' di tempo e forse il mondo attorno a me è cambiato. Ora non dico che sto cercando di allontanarmi da quel personaggio, da quel vuoto che stavo ricoprendo, ma mi accorgo che la realtà - purtroppo - è molto più complessa di così.
Spoiler: ovviamente la Gen Z non è una sola.
In demografia, una generazione ha vissuto circa gli stessi grandi fenomeni sociali nello stesso periodo di tempo, ma non è detto che questi, né tantomeno il contesto sociopolitico, vengano interpretati allo stesso modo da tutti.
Forse sarà vera quella cagata che ti dicevano quando facevi il collettivo al liceo "Nasci incendiario e muori pompiere", forse sarà che abbiamo in larga parte ancora vent'anni o forse è che ci siamo già bruciati ancora prima di avere il tempo di splendere, ma ciò che vedo attorno a me è estremamente polarizzato.
Da una parte, c'è chi sembra davvero volersi giocare tutto per cambiare le cose: formano collettivi, fanno attività vere, scendono in piazza, firmano petizioni, parlano di giustizia sociale con la stessa naturalezza con cui discutono del podio di Sanremo, spesso intersecando questo con argomenti più complessi in uno stesso filone narrativo. Dall'altra, invece, c'è una generazione parallela che sembra, non voglio dire "cresciuta senza strumenti" che poi sembra classista, ma almeno che ha avuto l'algoritmo sbagliato: cinica, ironica fino ad essere tossica, ma non ironica nel senso divertente, ma che ha perso le speranze di un mondo migliore ancora prima di poterlo sognare. La versione cresciuta del bambino delle elementari che ti vedeva con un gioco nuovo e te lo rompeva per quel tipo di rabbia illogica che puoi avere solo quando non capisci il mondo che ti sta attorno. Solo che, invece di essere un gioco, prova a distruggere la base di partenza delle tue idee, con quel tipo di cinismo cringe e di fanatismo per i potenti, gli uomini di successo e i milionari.
Cosa ci guadagnino, poi, rimane un mistero.
Nelle serate con gli amici si parla di tutto e mi sembra che siamo allineati almeno sui valori minimi di dignità dell'essere umano. Poi, quando esco dalla mia bolla e mi capita di andare al bar, in treno, su internet sotto un post che non è proprio nel mio target, vedo dei miei coetanei dire delle cose assurde.
Uno a volte si potrebbe chiedere "Ma c'è chi guarda il Podcasterone in maniera non ironica?". Purtroppo sì.
Non è che io voglia passare il tempo a fare dei pipponi su come si sta al mondo: non sono né un giornalista di Vice né un influencer che ha bisogno di fare ragebait, però c'è una parte della mia generazione che sta portando avanti - e in modo neanche troppo lento - un percorso di normalizzazione di istanze che se le sentissimo da La Russa non ci stupirebbero.
I social hanno un ruolo enorme in tutto questo casino. Da una parte, amplificano la voce di chi lotta per i diritti, ma dall'altra premiano il contenuto estremo, cinico o divisivo perché tira su l'engagement.
Tutto questo non fa che alimentare narrazioni sempre più estreme, dei giochi a chi urla più forte o dice la cosa più weird solo per prendersi il proprio spazio nella bolla dei contenuti virali e delle personalità digitali. Ma se tutti pensano al proprio posizionamento, chi è che si riesce a prendere il giusto spazio per approfondire? Per rendere complessità ad un mondo che non è solo meme brainrot, l'influencer ricca e progressista che ti spiega dove usare l'asterisco per essere inclusivo anche se non arrivi a fine mese o video di Vannacci che sostiene alcune delle teorie più retrograde di questi anni mentre cammina spedito nella sede del Parlamento Europeo?
E famiglia e scuola? Diciamo che se a casa o a scuola nessuno ti insegna l'empatia, non saranno due ore al giorno del Cerbero Podcast a farlo.
Da come l'ho scritto, sembra un casino e infatti è così.
La divisione della nostra generazione non è altro che lo specchio di una società più grande, che si trova di fronte a un bivio tra il progresso e una retromarcia pericolosa, dove a quanto pare nessuno ci sta capendo più niente.
Nel 2021 l’Accademia della Crusca ha inserito il termine “cringe” nella lista delle parole nuove, sia come aggettivo che come sostantivo.
Secondo alcuni studiosi, il successo del cringe si spiega col fatto che questa categoria consente di esplicitare l’ostilità verso un individuo o un gruppo di persone senza subire una sanzione sociale. Per la Gen Z, questo termine è usato spesso per definire i Millennial, con cui c’è grande rivalità. Ma se normalmente i giovani innovatori criticano i vecchi reazionari, ora la situazione sembra ribaltata. La Gen Z, infatti, rappresenta una fetta di popolazione particolarmente conservatrice, e ciò ha un grosso peso politico.
Sulle cause di questo atteggiamento, le ipotesi sono molte. Ma forse c’è anche la paura di essere bollati come cringe, appunto, dall’onnipresente sorveglianza e auto-sorveglianza dei social. Non a caso, la sociologa Caroline Brody parla del “cringe content” come di un dispositivo di controllo.
C’è infatti un altro aspetto che definisce la Generazione Z, ed è il modo in cui questi giovani gestiscono la propria immagine online. È la prima generazione completamente digitale, la prima a essere sempre sotto osservazione. È cresciuta sui social e vive la propria immagine come un costante progetto da perfezionare.
Fin dal 2013 su Instagram è possibile archiviare i propri post, ovvero renderli invisibili agli altri utenti che visitano il proprio profilo senza però eliminarli.
Da allora, quella di azzerare i propri post su Instagram è diventata un’usanza comune tra chi ha account pubblici. Le celebrità non sono però le uniche a mantenere un controllo molto serrato di ciò che è visibile sui loro profili. Da qualche anno soprattutto le persone più giovani hanno adottato un approccio a ciò che mostrano online che si discosta molto da quello delle generazioni precedenti. Se le persone che usano la piattaforma fin dall’inizio pensano a Instagram come a un album da scorrere per ricordare ciò che consideravano importante o interessante qualche anno prima, è raro che sul profilo di un adolescente appaia più di qualche manciata di foto. Spesso, anzi, i loro profili sono vuoti, e le fotografie vengono archiviate con una certa frequenza.
In parte si tratta di una questione estetica, ma in senso più ampio è un approccio che riflette una netta differenza tra come i social network vengono vissuti dai più giovani e dalle generazioni precedenti.
Dice Anna: «Una delle prime cose che si fanno quando si sente parlare di una persona nuova è andare a vedere il suo profilo. Ci si fa un’idea delle persone tramite i social, e quindi si ritiene che il profilo rifletta quella che un utente vuole far passare come idea di sé. Più foto ci sono e più si è esposti. Togliamo le foto perché non ci rappresentano più, non perché sono “troppe” sul profilo. Si tolgono perché non sono più in linea con l’immagine che vuoi dare alla persona che non ti conosce che guarda il tuo profilo».
Un’idea molto condivisa è quella secondo cui un profilo su Instagram non dovrebbe essere un archivio delle proprie esperienze, ma uno spazio dove condividere quello che si pensa e si vuole mostrare di sé in uno specifico periodo, con l’intenzione di eliminare tutto appena dovesse cambiare qualcosa.
Questa volontà di mantenere un controllo molto più stretto su ciò che un ipotetico pubblico può percepire di sé sui social network è in linea con un’altra tendenza molto diffusa, non solo tra i più giovani. E cioè quella di condividere molto più sulle Stories o all’interno di cerchie private selezionate.
«Non voglio essere percepita dalle persone che non sono a me vicine: e per tenere aggiornate le persone a cui tengo ci sono le Stories per amici stretti», dice Emma. «Io guardo i profili altrui soltanto per farmi gli affari loro, e presumo che anche gli altri facciano lo stesso, e onestamente non voglio che lo facciano con me».
Vi lascio ora a un bel contributo ricevuto da Nicole:
Oggi voglio rispondere al tema di come percepiamo la nostra immagine online e di come ci mostriamo e nascondiamo agli altri. Questo è un argomento che sento molto mio, perché l’ho dovuto affrontare spesso negli ultimi anni, quasi sempre in maniera conflittuale. Sono infatti una di quelle GenZ-er che ha fatto l’impensabile, l’incredibile, il grande passo: una mattina si è svegliata e ha deciso di eliminare in tronco tutti i social media, recidendo di netto quella che era diventata quasi una parte della sua identità. So di non essere l’unica ad averlo fatto, e voglio raccontare la mia esperienza nei suoi aspetti positivi e negativi, perché è strettamente legato al modo in cui la mia generazione vede e si fa vedere.
Parto dal presupposto che sono fermamente convinta che la generazione Z non sia l’unica per cui l’immagine di sé è fondamentale. Basti osservare la generazione dei nostri genitori per mettere fine a questa convinzione errata: prova a chiedere a una donna sopra i 50 di lasciarsi ingrigire i capelli, o a un uomo boomer di mostrare di non essere capace a fare una cosa. Impensabile per la maggior parte di loro. Quello che è diverso è che la nostra è una generazione in cui la performance è – deve – essere continua, anche in quegli ambienti intimi che dovrebbero essere sicuri.
Passiamo ore e ore al giorno a cercare di rendere i nostri profili Instagram quanto più simili a uno specchio perfetto e perfezionato di noi stessi e della nostra identità. Questo continuo monitoraggio auto-imposto – quanti passi fatti al giorno, i film guardati, i viaggi e pasti instagrammabili, il numero di amici e quanto spesso ci esci, per quanto siano misure imperfette del nostro successo sociale ed economico – non fa altro che creare in molti di noi la sensazione di avere costantemente una sentinella in testa, un osservatore silenzioso che anche nella più completa solitudine ti istruisce su cosa è accettabile e cosa non lo è. E se da un lato è il social a dare il primo impulso, è inevitabile che la mentalità social venga introiettata in noi al punto da non necessitare più nemmeno di quel mezzo: la sentinella silenziosa sarà sempre lì, anche nei momenti di solitudine più completa, ti osserva vivere e, severa, ti corregge.
Quella sentinella che si è insediata nella nostra mente ha un nemico, colui che è diventato il terrore più grande di qualsiasi appartenente alla genZ: il Cringe. La paura di risultare cringe si traduce in un rifiuto quasi fisiologico di mettersi in gioco, di provare cose nuove, per la paura non solo di fallire ma, fallendo, di provocare imbarazzo a noi e agli altri. Ed è così che diventiamo anche schiavi delle mode passeggere: quello che ieri era cringe (mangiare in un ristorante da soli), oggi diventa improvvisamente cool (“taking myself on a solo date”); quello che ieri era cool (certi trend di makeup, le sopracciglia spesse, il femminismo), oggi è diventato cringe (il contouring, i colori fluo degli anni 2010, #girlboss: CRINGE!) In questa mentalità non c’è modo di vincere: stare al passo con ogni microtrend è impossibile per tutti eccetto per quei pochi eletti che quei microtrend li creano. Per tutti noi comuni mortali, si aprono due strade.
La prima: possiamo mutarci continuamente, spendendo centinaia di euro nella speranza che nessuno si ricordi quella imbarazzante fase in cui si faceva contouring (molto meglio la #clean girl aesthetic, non lo sai?). Quindi presto, cancella tutte le prove, e spera che nessuno trovi le fotografie condivise nel 2010 sul profilo Facebook di tua madre. Questa strada ci porta a un consumismo senza fine, in cui i vestiti #cottagecore che amavamo la stagione scorsa finiranno in discarica, sostituiti dalla nuova moda di quest’anno. Purtroppo, devo ammettere che è questa la tendenza che vedo prevalere tra i miei coetanei e le mie coetanee, assidui compratori di Shein con buona pace degli ambientalisti che sì, hanno ragione però dai, che pesantezza!
La seconda strada potrebbe essere descritta come un tentativo disperato di rimuoversi da queste logiche per (ri)trovare una propria individualità. È quello che ho provato a fare io. Sembra molto bello e facile, vero? La verità, però, è che non lo è affatto. In primo luogo, la risposta più comune che ho ricevuto quando ho detto agli amici di aver cancellato tutti i social è stata un “ma perché?!” seguita da occhi sgranati e un cenno di disapprovazione. Può non sembrare un gran problema, ma per una generazione abituata a vivere per anni sotto l’occhio vigile dell’Altro, della necessità di omologarsi a una massa di Altri non meglio definita, non è affatto facile. Ammetto che all’epoca, la sentinella col fucile anti-cringe nella mia testa non ne è stata entusiasta, e ci ha quasi ripensato. La reazione di incredulità dei miei amici, che può sembrare esagerata a un’attenta analisi (chi ha deciso che devo per forza avere instagram? Hanno messo il social di cittadinanza? boh), ha però una sua spiegazione molto più che razionale.
Abbiamo demandato la maggior parte dei nostri contatti sociali alle interazioni sui social, abbandonando quasi del tutto gli altri canali. Ci siamo trincerati dietro un muro spessissimo fatto di rituali accettabili di interazioni umane che ci fanno sembrare normali agli occhi degli altri e di noi stessi. Una volta che togli tutto questo, cosa rimane? Chi sei, quando non devi (o non vuoi) più performare per un pubblico di amici e sconosciuti? Ascolteresti davvero quella musica se non fosse nei trending? Ti vestiresti così se non fosse l’ultimo #-core di tendenza? Passeresti tempo con le stesse persone, faresti le stesse cose, saresti la stessa persona?
Non è una domanda facile a cui rispondere, ed è ciò che sto cercando di scoprire da quando ho smesso di “performare” sui social più di tre anni fa. Silenziare quella sentinella non è stato semplice, è un percorso lungo e non lineare, fatto di cedimenti e a volte di ripensamenti.
Abbandonare un metro di giudizio così pervasivo richiede uno sforzo immane. Però il riuscire a riscoprirsi individuo e non solo immagine, sfaccettatura e non solo identità statica può donare una ricchezza impareggiabile. Con buona pace dell’amica che mi disse “se non sei su Instagram, cosa fai nel tempo libero??”
I giovani oggi cancellano, archiviano, modificano, perché vogliono controllare l'immagine che trasmettono. Uno studio pubblicato da Nature Human Behaviour ha evidenziato che la pressione per mantenere un’immagine impeccabile sui social porta a livelli elevati di ansia sociale e depressione. E non è solo una questione di apparenza: secondo l’International Society of Aesthetic Plastic Surgery, l’Italia è il quinto paese al mondo per interventi estetici, richiesti sempre più spesso da giovanissimi.
Questa ossessione per la perfezione ha radici profonde nella paura del giudizio, nella pressione costante a mostrarsi perfetti, senza vulnerabilità. In questa logica si inserisce la cosiddetta "telefonofobia", la paura crescente di rispondere al telefono, preferendo comunicazioni scritte che permettono controllo e correzioni.
Claire Pescott, ricercatrice dell’Università del Galles, ha osservato che per molte ragazze giovanissime i filtri digitali rappresentano ormai la norma estetica desiderabile. Questa pressione costante ha conseguenze psicologiche serie, come la dismorfofobia, la percezione alterata del proprio corpo.
In definitiva, la Gen Z è una generazione divisa: tra attivismo e disillusione, tra inclusività e cinismo. Una generazione costantemente sotto pressione, tra la paura di sbagliare e l’ansia di apparire sempre perfetti.
I millenial, di cui faccio parte, sentono di poter perdere tutto in qualsiasi momento. E, sempre di più, questo gli può capitare davvero.
Mentre città come Milano e Londra restano in cima alle classifiche sulle città in cui la vita è migliore, nessuno si chiede per chi. In questo scenario, le metropoli continuano ad attrarci come deviazioni carismatiche, generatori automatici di possibilità che sanno come risputarci fuori disintegrati. “Che stiamo cercando di avere successo all’interno di un sistema che non ha più alcun senso” scrive il giornalista Michael Hobbes. Comprare una casa o migrare “ci sono state presentate come porte di accesso alla prosperità perché, quando i boomer sono cresciuti, lo erano. Ma ora le regole sono cambiate e ci ritroviamo a giocare una partita impossibile da vincere”.
Infatti sembriamo inventati per perdere. E quindi poveri noi, nel senso anche letterale di “poveri”. Forse tutto comincia proprio nel mezzo della nostra “giovinezza”, quando invece di sballarci eravamo impegnati ad accumulare attestati di merito, corsi su corsi per dimostrare di essere meglio di qualcun altro. Il nostro ingresso nel mercato del lavoro è coinciso con la narrazione della scarsità, e la scarsità crea competizione.
Nomadismo, coworking, freelancing, multitasking; negli ultimi vent’anni ci siamo raccontati di tutto pur di convincerci che il mondo avrebbe potuto essere un posto diverso, che puntare tutto sullo stile di vita avrebbe costituito la svolta in grado di renderci felici. Siamo stati i pionieri del capitalismo digitale, il mercato “dell’esperienza” l’abbiamo inaugurato noi, capire come siamo arrivati alla great resignation, al quiet quitting che tanto ci accomuna alla Gen Z, significa inevitabilmente passare per la storia artificiale dei nostri sentimenti.
La verità è che entrambe queste generazioni stanno cercando di sopravvivere in un mondo che ha promesso molto e mantenuto poco. I millennial si sono allenati alla competizione, si sono raccontati che bastava “impegnarsi”, e oggi si ritrovano con una laurea, un burnout e un affitto impossibile da pagare. La Gen Z li guarda e non vuole fare la stessa fine. Ma nel tentativo di reagire, a volte si perde. O si rifugia nel cinismo, nella performance costante, nell’estetica della ribellione.
Eppure qualcosa accomuna chi è nato negli anni '90 e nel 2008, negli anni ‘80 e nel 2002, la sensazione di trovarsi sempre un passo indietro rispetto a un sistema che cambia le regole appena hai imparato a giocare. E allora c’è rabbia, paura, bisogno di trovare un colpevole. Ma anche una ricerca – spesso goffa, a volte brillante – di significato, di giustizia, di comunità.
Capire una generazione, forse, è meno utile che imparare ad ascoltarla. Senza filtri, senza storytelling, senza l’ansia di archiviarla sotto un’etichetta.
Perché se qualcosa ci insegna tutto questo, è che non siamo qui per rappresentare una categoria, ma per capire come si vive, oggi, in un mondo che sembra disegnato per farti sentire fuori posto.
Per questo quarantacinquesimo numero di Capibara è tutto. Alla prossima!
tutto vero che dire, daje
Grazie per essere riuscito nell’impresa ardua di far sentire una donna del ‘93 (laureata peraltro in discipline sociali) come una cariatide lontana dal mondo verso i giovani. Credo sia poco studiato il fatto che la distanza tra persone che si portano tutto sommato pochi anni di differenza aumenta sempre di più e degli effetti che si porta dietro: se io fatico a comprendere gli Zoomer, come può farcela uno del 75 o del 65 addirittura? Questi poi si incontrano sul lavoro, che succede?