Benvenute e benvenuti a un nuovo numero di Capibara, una newsletter umanista che fa ridere ma anche pensare. Come accennato nel precedente numero, questo chiude una spontanea trilogia dedicata al tema della normalizzazione e delle sue conseguenze sociali.
Vi trovate di fronte a Il ritorno del re di Capibara, ma dura meno di tre ore (qui La Compagnia dell'Anello e Le due torri).
Avevo in bozza questo tema da marzo 2024, quando è ricorso il centenario della nascita di Franco Basaglia. Ed eccoci qui, quasi un anno dopo. Fino agli anni Settanta, in Italia, chi soffriva di un disturbo mentale veniva spesso rinchiuso a vita, privato di qualsiasi diritto, ridotto a un numero. L’ospedale psichiatrico non serviva a guarire, ma a nascondere. Se siete mai passati accanto a un ex manicomio, sapete di cosa parlo. Architetture monumentali che raccontano una storia di segregazione più che di cura.
Franco Basaglia, nato a Venezia nel 1924, fu prima di tutto un uomo che si rifiutò di accettare lo status quo. Partigiano in gioventù, portò lo stesso spirito di ribellione nella psichiatria, denunciando l'orrore dei manicomi e descrivendoli come "istituzioni totali". La sua battaglia partiva da un’idea semplice ma rivoluzionaria: la malattia mentale non è un’entità astratta, ma un fenomeno radicato nelle condizioni sociali ed economiche in cui vive il paziente.
La svolta arrivò con l’esperienza di Gorizia, dove Basaglia, nominato direttore dell’ospedale psichiatrico nel 1961, trasformò il concetto di cura. Ruppe le catene fisiche e metaforiche dei manicomi, introdusse l’idea che i pazienti dovessero essere coinvolti attivamente nella loro terapia e che la comunità esterna dovesse partecipare al processo di riabilitazione. Questo approccio portò alla nascita di un movimento internazionale per il superamento della psichiatria repressiva, culminato nella Legge 180 del 1978, che sancì la chiusura definitiva dei manicomi in Italia, rendendo il nostro Paese un esempio unico al mondo.
Basaglia non negava che il malato di mente potesse essere pericoloso: «può esserlo come può non esserlo», disse nel documentario I giardini di Abele, realizzato da Sergio Zavoli nel 1968. Sosteneva però che la pericolosità non dipendesse soltanto dalla malattia, ma da molteplici fattori, anche sociali, e che dovesse essere gestita a partire da questa premessa. «Una persona che disturba, malata o meno che sia, finisce o in manicomio o in carcere», disse suggerendo un’analogia ripresa più volte in altre occasioni.
Per decenni moltissime persone che non soffrivano di malattie mentali erano state rinchiuse nei manicomi perché ritenute “devianti”. Tra queste c’erano omosessuali, prostitute, alcolisti, persone con disabilità, bambini orfani. C’erano anche molte donne considerate inadatte al ruolo di moglie e madre richiesto dalla società dell’epoca, il cui internamento era giustificato sulla base delle leggi esistenti sul «pubblico scandalo»: donne considerate “ninfomani”, “indemoniate” o “malinconiche”. I ricoveri avvenivano in modo coatto, su richiesta di chiunque segnalasse la presunta pericolosità della persona in questione.
Per suscitare un cambiamento nella percezione comune degli ospedali psichiatrici Basaglia considerò indispensabile, a parte i libri, fornire una documentazione fotografica di quanto accadeva in quelle strutture. Lavorò con due affermati fotografi, Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati, affinché documentassero le condizioni dei malati e dei manicomi italiani che li ospitavano. Le fotografie furono pubblicate da Einaudi nel 1969 nel libro Morire di classe, recentemente ripubblicato dal Il Saggiatore.
Se l’opera denunciava la condizione disumana dei manicomi, oggi potremmo usare lo stesso titolo per raccontare una realtà altrettanto feroce: quella di un sistema penale che, invece di proteggere e riabilitare, diventa la nuova discarica sociale per chi è povero, fragile o incompatibile con le logiche produttive.
La sua riforma ha cambiato l’approccio alla salute mentale, ma non ha eliminato il problema della gestione sociale della devianza. Oggi, molti degli individui che un tempo sarebbero stati internati in manicomio finiscono in carcere. Secondo i dati di Antigone, circa il 40% dei detenuti italiani presenta disturbi psichici diagnosticati, con un 10% affetto da patologie gravi. In un sistema che non offre alternative valide, la prigione è diventata il nuovo spazio di segregazione per chi soffre di disagio mentale. Lo storico Loïc Wacquant ha definito questa dinamica "la gestione penale della miseria": quando uno Stato smette di fornire cure e assistenza, il destino delle persone più vulnerabili diventa la criminalizzazione.
Il sistema penale, dunque, non si limita a raccogliere la sofferenza mentale che la società non vuole gestire, ma la esacerba, contribuendo a un ciclo di marginalizzazione senza via d’uscita.
Numerosi studi confermano la connessione diretta tra povertà e malattia mentale. Un'analisi condotta da ricercatori del MIT e di Harvard, pubblicata su Science, evidenzia un nesso causale bidirezionale: vivere in condizioni di disagio economico aumenta il rischio di sviluppare disturbi mentali come depressione, ansia e schizofrenia. Allo stesso tempo, le persone con patologie psichiatriche hanno maggiori probabilità di trovarsi in una condizione di precarietà economica, sia per le difficoltà nel mantenere un impiego sia per la stigmatizzazione sociale.
Secondo una ricerca dell'Università di Modena e Reggio Emilia, pubblicata su Nature Human Behaviour, i disturbi psichiatrici non solo sono più diffusi tra le persone economicamente svantaggiate, ma contribuiscono anche in modo diretto alla povertà, impedendo l'accesso a opportunità lavorative e sociali. Questa interconnessione crea un circolo vizioso difficile da spezzare: la povertà aumenta il rischio di malattia mentale, che a sua volta riduce le possibilità di migliorare la propria condizione economica.
Un altro aspetto cruciale di questa problematica è l'accesso alle cure. Le persone con un reddito più alto non solo hanno minori probabilità di sviluppare disturbi mentali, ma, quando colpite, possono contare su terapie efficaci e su strutture moderne, che offrono percorsi di cura rapidi e personalizzati. Al contrario, chi vive in condizioni di povertà si trova spesso costretto a ricorrere a servizi pubblici sovraccarichi e con tempi di attesa lunghissimi, o a rinunciare del tutto alle cure.
Il problema è amplificato dal divario territoriale. Secondo la Fondazione Veronesi, nel Sud e nelle aree economicamente più deprivate l’accesso ai servizi di salute mentale è drasticamente inferiore rispetto al Nord. Il risultato è che chi nasce in un contesto svantaggiato ha meno possibilità di essere curato e, nel peggiore dei casi, viene abbandonato fino a quando il disagio non diventa insostenibile – per lui e per la società.
Se Basaglia ha smantellato i manicomi, il problema oggi è che manca un'alternativa solida. I servizi territoriali di salute mentale, che avrebbero dovuto sostituire le strutture repressive, sono sottofinanziati e insufficienti. Basaglia immaginava una psichiatria di comunità, che integrasse la cura con il supporto sociale, ma nel corso degli anni questa visione è stata smantellata, lasciando un vuoto colmato solo dal sistema punitivo.
Nell’ultimo episodio di Capibara il podcast ho parlato proprio della crisi del sistema carcerario italiano. Con ospiti Susanna Marietti dell’associazione Antigone e Isabella De Silvestro del podcast Gattabuia, abbiamo raccontato cosa succede dietro le sbarre e perché la prigione non può essere la risposta a tutto.
Se vogliamo interrompere questo meccanismo, dobbiamo cambiare approccio: la risposta non può essere solo repressiva. Il movimento abolizionista, discusso ampiamente in ambito accademico e militante, propone un ripensamento totale del concetto stesso di pena.
Il carcere è una risposta fallimentare a problemi che andrebbero affrontati con misure sociali ed economiche. La vera giustizia non è punire, ma prevenire: investire in salute mentale, welfare abitativo e istruzione è il modo più efficace per ridurre la criminalità e migliorare il benessere collettivo.
Michel Foucault, in Sorvegliare e punire, ci ha mostrato come le istituzioni totali – manicomi, carceri, ospedali psichiatrici – non siano nate per curare o rieducare, ma per disciplinare e sorvegliare chi devìa dalle norme sociali. La loro funzione non è eliminare il problema, ma renderlo invisibile, spostarlo lontano dallo sguardo della società produttiva. Il concetto di biopolitica aiuta a capire come lo Stato, nel nome dell’ordine e della sicurezza, decida chi ha diritto a una vita dignitosa e chi invece deve essere escluso o neutralizzato.
Anche il Panopticon di Bentham, ripreso da Foucault, è un’immagine perfetta per descrivere la criminalizzazione della povertà e del disagio mentale: chi è fragile sa di essere costantemente sotto osservazione, sa che basta un piccolo passo falso per essere etichettato come deviante e finire in una cella. Non c’è bisogno di una repressione esplicita e violenta: basta costruire un sistema in cui le persone imparano a temere ogni loro mossa, a sapere che il loro posto è precario e facilmente revocabile.
Oggi celebriamo Basaglia come un pioniere, ma la domanda che lui poneva resta aperta: che fine fanno, oggi, quelli che non sappiamo dove mettere? Li chiudiamo nelle carceri, li lasciamo ai margini, li ignoriamo. Pensiamo che il problema sia risolto, solo perché non lo vediamo. Povertà, malattia mentale e carcere sono tre dimensioni intrecciate in un sistema che non solo non cura, ma moltiplica emarginazione e sofferenza.
Per questo trentottesimo numero di Capibara è tutto. Abbiamo superato i duemila iscritti, non è molto ma comunque più degli elettori di Italia Viva. Grazie a tutte e tutti. Come sempre, ci sentiamo sabato prossimo col podcast e fra due sabati con la newsletter, sempre se sopravviviamo a Sanremo. Basaglia non è riuscito a farlo chiudere.
Ciao Gabriele, la salute mentale e la sua "incompatibilità" con un modello di società capitalista è un tema che mi sta molto a cuore. Mi è sorta una domanda a cui forse tu puoi darmi risposta: assodato che tra povertà e salute mentale c'è un evidente duplice nesso causale, in un modello comunista, dove non esiste disparità economica, come veniva gestita l'insanità mentale? Era riconosciuta come un impedimento al lavoro?
Mi rendo conto che è un discorso complicato, perché comunismo e sensibilizzazione alla salute mentale nel novecento sono successi in momenti separati, ma magari tu hai più strumenti di me :)
Ogni volta mi ricordo di Laing e di come diceva che rinchiudiamo in psichiatria chi dice di avere la bomba dentro di sé mentre lasciamo a piede libero presidenti che dicono di poter premere da un momento all'altro il bottone dell'atomica (o compiere genocidi). Chi è più pericoloso?